40 Secondi, il film su Willy Monteiro Duarte: una riflessione intensa su violenza giovanile, coraggio e responsabilità sociale.
Nel quinto anniversario della tragica scomparsa di Willy Monteiro Duarte, Vincenzo Alfieri presenta in anteprima, alla 20ª Festa del Cinema di Roma, 40 Secondi, tratto dal libro 40 Secondi. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio della violenza, di Federica Angeli.
Senza urlare, indulgere nella retorica o nella spettacolarizzazione, ma parlando chiaro, con un linguaggio diretto e autentico, con l’intento di scuotere le coscienze — soprattutto delle nuove generazioni — 40 Secondi ricostruisce le 24 ore che precedettero la notte del 6 settembre 2020, quando il 22enne Willy, per aver tentato di difendere un amico, fu vittima di un brutale pestaggio che spezzò per sempre la sua giovane vita.
Quando la violenza parla al posto dell’educazione
40 Secondi affronta una delle tematiche più dolorose e urgenti del nostro tempo: la violenza gratuita e insensata, che non nasce nel vuoto, ma affonda le radici in dinamiche sociali distorte, in una cultura machista, ipercompetitiva e superficiale, alimentata da un profondo vuoto valoriale. Quella di Willy Monteiro Duarte non è solo una tragica vicenda di cronaca: è lo specchio di una società che ha smarrito il senso della misura, della solidarietà e dell’umanità nei suoi segmenti più giovani.
Il contesto in cui si svolge la vicenda è quello di una provincia italiana all’apparenza tranquilla, come ce ne sono tante. Una periferia dove le giornate si somigliano, i legami si consumano nel non detto e le tensioni — familiari, sociali ed economiche — restano sotto traccia, fino a esplodere nei momenti e nei modi più impensabili. Il film è abile nel mostrare come la deriva distruttiva non si manifesti all’improvviso, ma sia il frutto di un accumulo silenzioso di frustrazione, emarginazione, assenza di punti di riferimento e di modelli positivi.
Lo smarrimento giovanile è il filo rosso che attraversa l’intero racconto: giovani lasciati a sé stessi, disorientati da una società che offre visibilità invece di profondità, che premia l’arroganza piuttosto che l’ascolto, che celebra la forza come sinonimo di rispetto e dominio. In questo scenario, la violenza diventa un linguaggio alternativo, una scorciatoia per affermarsi, per guadagnare una posizione nel branco, per non sembrare deboli.
Il film di Alfieri restituisce con intelligenza questo spaccato generazionale, per l’appunto senza moralismi né spettacolarizzazioni. La sua forza sta nella capacità di spostare l’attenzione dal gesto feroce alle radici che lo generano, analizzando la deriva di un ambiente culturale in cui l’educazione emotiva è spesso assente, le famiglie sono fragili, la presenza adulta sempre più evanescente e la microcriminalità trova, di conseguenza, il suo terreno più fertile.
Il drammatico fenomeno della violenza giovanile — che ha assunto negli ultimi anni proporzioni allarmanti — non è solo una serie di eventi isolati, ma un fenomeno sistemico, alimentato anche dai social media, dove l’aggressività verbale si moltiplica, il consenso si misura in like e visualizzazioni, e l’abuso può essere elevato a spettacolo o, peggio, a mito.
Nel caso di 40 Secondi, la crudeltà non è rappresentata solo come atto fisico, ma come fallimento collettivo, come prodotto di una cultura che non ha saputo coltivare l’empatia, il dialogo e il rispetto. È una sopraffazione che si consuma in quaranta secondi, ma che nasce da anni di indifferenza, silenzi, messaggi sbagliati trasmessi ogni giorno dai media, dai modelli sociali e perfino dalle famiglie.
In questo modo, il film ci costringe a guardarci dentro, a riflettere su come siamo arrivati fin qui e su cosa possiamo ancora fare per fermare questa escalation che, se non affrontata alle origini, rischia di diventare la nuova norma anziché l’eccezione.
40 secondi per spegnere una vita intera
40 Secondi ovviamente non offre risposte né motivate — e inaccettabili — giustificazioni, bensì semina domande. Non cerca colpevoli facili, ma invita a interrogarsi su ciò che, collettivamente, non ha funzionato. E poco importa se i fatti non sono riportati perfettamente e lo sviluppo, per chi conosce quel territorio, presenta alcune sbavature: non era certo quello l’obiettivo. Ciò che conta è che colpisce evitando ogni banale commozione, preferendo l’asciuttezza al melodramma, la veridicità al sensazionalismo.
La regia sobria di Alfieri, unita a una sceneggiatura lucida e a interpretazioni sincere, restituisce dignità e umanità a una vicenda che non deve essere dimenticata. Da Francesco Gheghi, Enrico Borello, Francesco Di Leva, Beatrice Puccilli, Giordano Giansanti, Luca Petrini, Sergio Rubini, Maurizio Lombardi, fino all’esordiente Justin De Vivo nei panni di Willy: ognuno di loro porta sullo schermo lo sguardo dei protagonisti di quel tragico episodio.
Un accadimento che deve essere utilizzato come importante strumento educativo — proprio come lo è stato Il ragazzo dai pantaloni rosa — e che può e deve essere visto nelle scuole e discusso tra i giovani, diventando un punto di partenza per riflettere su argomenti fondamentali come il coraggio, la responsabilità civile e l’importanza del dire “no” alla violenza, in ogni sua forma.
40 Secondi, in definitiva, è un atto civile, un memoriale laico che rende giustizia, con rispetto, a un ragazzo che ha pagato con la vita la sua generosità, ricordandoci che basta un attimo — quaranta secondi — per spegnere una vita, ma anche per scegliere di cambiarla in meglio.
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Emanuela Giuliani
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