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A House of Dynamite, la recensione: il thriller nucleare che interroga il mondo

La corsa contro l’annientamento, tra tensione politica, umanità fragile e realismo visivo di A House of Dynamite.

Dopo il Leone d’Argento del 2008 con The Hurt Locker — che la rese la prima donna a vincere l’Oscar per la regia — e il successo di Detroit nel 2017, Kathryn Bigelow è diventata una figura chiave del cinema d’azione e politico, unendo tensione e riflessioni profonde.

La regista affronta temi complessi con intensità visiva e personaggi forti, offrendo uno sguardo lucido e personale. Ora torna alla Mostra del Cinema di Venezia, giunta all’82ª edizione, con uno dei titoli più attesi della stagione: A House of Dynamite. Il film, scritto da Noah Oppenheim e in uscita su Netflix il 24 ottobre 2025, conferma la sua capacità di mescolare adrenalina, critica politica e rigore autoriale, esplorando con suspense le tensioni internazionali.

In A House of Dynamite, il lancio di un missile contro gli Stati Uniti — non rivendicato da alcuna nazione — sconvolge gli equilibri globali, scatenando una corsa contro il tempo per identificare i responsabili e decidere la risposta del governo americano, sullo sfondo di un clima politico instabile e di crescenti tensioni geopolitiche.

Il peso delle decisioni

Kathryn Bigelow torna dietro la macchina da presa per dirigere un’opera potente, essenziale e attuale, che si inserisce con rilevanza nella tradizione del thriller politico americano, ma con uno stile narrativo inconfondibilmente suo. Ancora una volta si confronta con il tema dell’emergenza globale, spostandosi però all’interno della Casa Bianca, nel pieno di una crisi nucleare imminente.

Il film si apre con una minaccia missilistica di origine sconosciuta puntata contro gli Stati Uniti. Non c’è tempo per indagini o congetture: la tensione è istantanea, compressa, assoluta. La regia della Bigelow segue da vicino il cuore pulsante del potere, mostrando le reazioni, le esitazioni, le paure e i dilemmi morali di chi si trova a decidere, letteralmente, le sorti del pianeta. È un dramma politico, ma anche profondamente umano, costruito sul precipizio della catastrofe.

La sceneggiatura di Noah Oppenheim (Jackie, Zero Day) evita ogni didascalismo o retorica per concentrarsi su ciò che accade nelle stanze chiuse del potere. Oppenheim non scrive un film di guerra, ma un’opera sulla concreta possibilità dell’annientamento totale di un’umanità che, pur avendo costruito i mezzi per autodistruggersi, fatica ancora a comprenderne il senso e la portata.

Non è importante, infatti, chi abbia lanciato i missili, ma il fatto stesso che possano essere lanciati, e che qualcuno, da qualche parte, abbia la facoltà di premere il pulsante. Un’assurda normalizzazione della deterrenza nucleare che rappresenta il nodo centrale dell’opera.

Bigelow non predica, non offre soluzioni, ma pone lo spettatore davanti a un paradosso: come può la distruzione totale essere considerata un’opzione difensiva? Come può il mondo convivere con questa minaccia latente senza interrogarsi a fondo, senza parlarne?

Per questo A House of Dynamite è anche un film politico nel senso più nobile del termine: non perché parteggi per una parte, ma perché interroga la collettività, chiedendole di guardare in faccia le proprie contraddizioni.

Dal punto di vista visivo, il film è un esempio magistrale dello stile che da sempre distingue la regista: asciutto e immersivo, con l’uso di inquadrature ravvicinate che trasmettono un senso costante di claustrofobia. Non ci sono grandi panoramiche o effetti spettacolari, tutto si gioca nello spazio limitato di uffici, bunker e sale operative, alimentando un’atmosfera di crescente oppressione e restituendo così un senso di urgenza e realismo.

Un elemento chiave nella costruzione della tensione è la colonna sonora originale di Nicholas Britell, tra i compositori più talentuosi del panorama contemporaneo (Moonlight, Succession). Britell utilizza tessiture elettroniche minimali, suoni gravi e pulsanti che scandiscono il tempo verso la catastrofe. La sua musica non invade mai la scena, ma la accompagna con intelligenza, sottolineando silenzi e respiri trattenuti dei personaggi.

Il risultato è una partitura che amplifica l’angoscia emotiva e contribuisce a fare di A House of Dynamite un’esperienza profonda, il cui titolo non è né casuale né solo metaforico: la “casa” è ovviamente la Casa Bianca, centro del potere decisionale, che si trasforma in una polveriera, e ogni parola, ordine o tentativo di reazione può innescare un’esplosione globale. A tal proposito, il film gioca con la doppia natura del potere: quella di proteggere e quella di distruggere, suggerendo che le fondamenta stesse della sicurezza mondiale sono ormai impregnate di instabilità.

A completare il quadro, un cast di alto profilo, perfettamente calibrato per restituire l’ansia e la pressione di una crisi nucleare imminente. Idris Elba è un presidente carismatico e vulnerabile, Rebecca Ferguson una consigliera per la sicurezza nazionale intensa, affiancati da Jared Harris, capo dello staff presidenziale, e Gabriel Basso, giovane analista CIA. Attorno a loro, un ensemble che anima i centri nevralgici del potere americano.

Un’illogicità dell’accettazione

A House of Dynamite è un film disturbante, non tanto perché denuncia un problema — quello dell’arsenale nucleare — quanto perché mette lo spettatore di fronte all’illogicità della sua accettazione. Kathryn Bigelow, con il consueto acume, costruisce un’opera che parla del nostro tempo, della paura, della responsabilità e della fragilità delle strutture su cui si regge il nostro mondo. Un film con un finale aperto, sospeso e volutamente imperfetto, che resta a ronzare nella mente dello spettatore come una domanda irrisolta, riflettendo l’incertezza e la complessità del nostro tempo.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

8


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