Presentato in Concorso a Venezia 82 il nuovo film della cineasta francese, una tragica odissea sulla povertà un po’ troppo autocompiaciuta.
Un film potente, un film attuale, ma forse un film un po’ troppo retorico e laccato. A Pierre D’Oeuvre di Valérie Donzelli era tra i titoli più attesi di questa Venezia 2025. Il risultato finale del film, tratto dal romanzo autobiografico di Franck Courtès, è non privo di elementi di interesse e di bellezza, ma è come se mancasse la capacità di essere credibile, di andare oltre la ripetizione.
Un sogno che diventa una condanna
Protagonista del film di Valérie Donzelli è Paul (Bastien Buillon), la cui vita è appesa ad una svolta imprevedibile. Fotografo di successo, ricco e famoso, ha deciso di mollare tutto e diventare scrittore a tempo pieno. I suoi romanzi sono stati incensati dalla critica, ma hanno venduto sempre poco, la casa editrice gli dice chiaro e tondo che deve cambiare qualcosa, andare oltre ciò che sa fare. Come se non bastasse, la moglie (Virginie Ledoyen) lo lascia e si trasferisce con i figli in Canada, di fatto mettendo mezzo mondo di distanza tra di loro, non va meglio col padre (André Marcon), che non lo supporta e che rabbiosamente cerca di fargli cambiare idea.
Deciso comunque a non mollare, Paul però si trova sempre più in difficoltà economiche, costretto ad accettare lavori sempre più umilianti, malpagati e senza continuità. In breve, la sua “decrescita” diventerà una sorta di incubo, in cui all’instabilità economica si accompagnerà l’isolamento, la solitudine, la disperazione. A Pierre D’Oeuvre parte dall’intenzione chiara da parte della Donzelli di parlarci di una categoria precisa di lavoratori: quelli dediti alla cultura, all’arte, che spesso devono fare i conti con instabilità, mancanza di certezze, un mondo ostile e poco trasparente.
Film lugubre, cupo, messo quasi completamente sulle spalle di un Bastien Buillon represso, sotto le righe totalmente, A Pierre D’Oeuvre è armato della fotografia realistica di Irina Lubtchansky, usata in modo perfetto dalla Donzelli per guidarci dentro una metropoli ostile, quasi sempre notturna. Gli interni dominano, Paul è prigioniero di quel piccolo PC a cui si aggrappa costantemente, della sua stanza, degli sguardi degli altri, della notte che lo avvolge mentre fa il taxista. Non c’è nulla attorno, è come se stesse dentro un buco nero, però nel delineare il suo sprofondare, la Donzelli si fa prendere la mano, esagera, non riesce a contenersi.
Buone intenzioni, ma c’è troppa retorica della sofferenza
A Pierre D’Oeuvre, scritto assieme a Gilles Marchand, permette alla regista transalpina di mostrare tutta la sua abilità nel tratteggiare una vita secondo lo sguardo dell’intimità. Tuttavia, tale registro comincia a diventare alquanto ripetitivo da metà film in poi, e non permette soprattutto a Buillon di andare oltre una dimensione monotematica del suo personaggio, sorta di anima persa in balia degli eventi. Certo, il film ha il pregio di essere racconto intimo e civile, di parlarci con una modalità più sentita e vera di ciò che pensa e di ciò che desidera. Certo, la regia è efficace, ci sono molti momenti toccanti, profondi, in questo film che parla della povertà che ormai domina, di una condizione che è diventata generazionale, non più di una semplice categoria.
Dettagli, inquadrature, sono tremendi nel mostrare l’umiliazione, la progressiva perdita di contatto con la realtà di quest’uomo, che nell’età in cui si dovrebbe aver certezze, invece finisce dentro una prigione di paura, di instabilità. Tuttavia, Donzelli esagera con l’alienazione, con l’insistere quasi sadico su un’incapacità di vivere totalmente passiva, che alla fine fa sembrare il tutto quasi un campionario di incapacità, più che di difficoltà.
Il ritmo di A Pierre D’Oeuvre alla fine diventa il suo pregio e il suo difetto, con dialoghi sempre più essenziali, un respiro che si fa corto. Rimane comunque la nobiltà delle intenzioni, lo stile coerente, la volontà di farci capire come l’industria culturale sia una sorta di trappola. La spersonalizzazione che essa richiede, il suo inseguire il pubblico con moduli standardizzati, sono lo specchio di una società che schiacci chiunque, che la cultura in fondo la teme, la osteggia. Ma soprattutto ormai la figura del lavoratore è diventata quella di un essere costretto ad accettare ogni umiliazione, ogni disastro, pur di sopravvivere. “Finire un testo non significa essere pubblicati, essere pubblicati non significa essere letti, essere letti non significa essere amati, essere amati non significa avere successo, e il successo non offre alcuna promessa di fortuna”. Però si poteva fare meglio.
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Giulio Zoppello
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