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American Psycho: un viaggio disturbante tra satira, psicologia e critica sociale

Diretto da Mary Harron American Psycho è senza alcun dubbio un viaggio disturbante tra satira, psicologia e critica sociale.

American Psycho, diretto da Mary Harron e tratto dall’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis, non è un semplice thriller psicologico, ma un’opera stratificata, carica di tensione e ambiguità che si muove tra il grottesco e il filosofico, tra l’horror e la commedia nera. Attraverso il ritratto disturbante e disturbato di Patrick Bateman, giovane yuppie della Manhattan reaganiana, il film scandaglia le contraddizioni più profonde della società occidentale rivelando il volto oscuro del capitalismo, l’alienazione dell’individuo e il culto patologico dell’immagine.

Ambientato nella scintillante, ma superficiale, New York degli anni ’80, American Psycho costruisce una narrazione sospesa tra l’allucinazione e la critica sociale ed esplora temi come la disumanizzazione dell’identità, la mercificazione delle relazioni umane e la banalizzazione del male. Non si tratta di un horror tradizionale, né tanto meno di un esercizio di stile: American Psycho è una lente deformante che riflette la decadenza morale del nostro tempo.

Patrick Bateman: la maschera dell’uomo contemporaneo

Il personaggio di Patrick Bateman, manager finanziario impeccabile, affascinante, curato fino alla maniacalità, incarna l’apice della carriera e dello status sociale ma al tempo stesso è privo di un identità autentica. Dietro la sua maschera levigata e rassicurante, si cela un mostro freddo, sadico, emotivamente dissociato prodotto terminale, in fondo, di una società che misura il valore umano in base all’apparenza, al conto in banca, alla marca del vestito o al design del biglietto da visita.

La sua doppia vita, executive di giorno, assassino di notte, oltrepassando la semplice dicotomia narrativa si fa metafora della frattura psichica dell’uomo contemporaneo, costretto a recitare ruoli sociali privi di autenticità. Bateman è un’icona dell’alienazione moderna: un soggetto iper-performativo, consumato dalla necessità di “essere” qualcosa che in realtà non è. La sua identità si sfalda in una spirale di allucinazioni e deliri narcisistici che confondono lo spettatore e mettono in discussione la realtà stessa della narrazione.

Christian Bale offre un’interpretazione straordinaria e totalizzante, la sua trasformazione fisica e psicologica è così intensa da risultare inquietante, e Iil suo Bateman è perfettamente calato nel ruolo dell’uomo che abita un mondo lucido e luccicante, ma completamente privo di umanità.

La regia di Mary Harron: uno sguardo femminile nel cuore della violenza maschile

Uno degli elementi più rilevanti, e spesso trascurati, dell’adattamento cinematografico di American Psycho è la prospettiva registico-narrativa di Mary Harron. In un contesto dominato dalla rappresentazione maschile della violenza, la Harron sceglie un approccio volutamente sobrio, quasi clinico, che si allontana sia dalla spettacolarizzazione del sangue che dalla pornografia del trauma.

Il suo sguardo è distaccato, ironico, e permette di decostruire la mitologia dell’“uomo potente e pericoloso”. Al fianco della sceneggiatrice Guinevere Turner, la Harron conferisce al film una sensibilità che non si limita a mostrare la violenza, ma la interpreta come un linguaggio dell’impotenza emotiva maschile. La misoginia di Bateman non è mai seducente o “cool”, bensì è misera, prevedibile, disperata.

Rispetto al romanzo, il film concede spazio alle voci femminili, segretarie, escort, colleghe, che diventano più che vittime rivelando una rete di sopraffazione strutturale. Questo cambio di focus permette una lettura più ampia, che va oltre la psicosi individuale di Bateman e si estende alla tossicità sistemica del mondo che lo circonda.

Dal romanzo al film: due linguaggi, una stessa inquietudine

Il romanzo di Bret Easton Ellis, pubblicato nel 1991, è un’opera radicale, volutamente disturbante, scritta in uno stile clinico e ripetitivo che imita il flusso ossessivo del pensiero del protagonista. La violenza, raccontata con dettagli raccapriccianti, diventa una metafora dell’anestesia morale della società, ed Ellis non giustifica Bateman facendone invece una caricatura estrema dell’edonismo capitalista.

Il film della Harron compie una scelta necessaria: trasformare l’orrore grafico in inquietudine simbolica. La violenza, pur presente, è spesso suggerita, elusa, delegata all’immaginazione dello spettatore. Questa strategia non indebolisce l’impatto dell’opera, ma lo potenzia. L’ambiguità narrativa diventa una risorsa poetica: è tutto vero, o è un delirio di onnipotenza?

La visione mantiene lo spirito critico del romanzo, ma lo adatta a un linguaggio visivo più accessibile capace di dialogare con un pubblico più vasto e diversificato. Il risultato è un’opera ibrida, che fonde estetica pubblicitaria, ironia postmoderna e introspezione psicoanalitica.

Pop culture e ironia: tra Huey Lewis e il vuoto esistenziale

Uno degli aspetti più memorabili di American Psycho è il suo uso grottesco della cultura pop. I monologhi di Bateman sui Genesis, Whitney Houston o Huey Lewis and the News sono infatti momenti di pura alienazione: analisi pseudo-intellettuali che Bateman recita come se stesse leggendo da un copione scritto da qualcun altro, mentre si appresta a commettere atti orrendi.

Questi passaggi rivelano la dissociazione profonda tra linguaggio e sentimento: Bateman non prova nulla, ma finge tutto, è l’epitome del narcisismo contemporaneo, dell’individuo che vive attraverso superfici riflettenti, la musica, i brand, i media, senza mai costruire una reale connessione emotiva o etica.

L’ironia del film non è mai compiacente: è uno strumento per disinnescare la fascinazione morbosa che spesso accompagna il racconto dei “mostri” moderni. American Psycho riesce così a essere una critica feroce al consumismo anche mentre lo rappresenta, trasformando la cultura pop in un paradosso tragico.

Conclusione: lo specchio oscuro della nostra epoca

A oltre vent’anni dalla sua uscita, American Psycho conserva intatta la sua forza disturbante. Patrick Bateman continua a essere uno specchio oscuro, in cui si riflettono le nevrosi della modernità: l’ossessione per il corpo perfetto, la competizione sfrenata, l’incapacità di provare empatia, la spettacolarizzazione della violenza.

Il film, come il romanzo, non offre risposte semplici, ma anzi, la sua ambiguità è ciò che lo rende potente: non sappiamo se Bateman sia un assassino reale o solo un malato di mente imprigionato in un sogno delirante, tuttavia ciò che conta è il sistema che lo ha generato, nutrito, idolatrato.

American Psycho non parla solo del passato, ma dell’oggi. In un mondo sempre più orientato alla performance, all’apparenza e all’autopromozione digitale, la domanda finale rimane inquietante e attuale: quanto di Patrick Bateman c’è ancora in noi?

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Emanuela Giuliani


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