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Ammazzare Stanca, la recensione: un’intenzione forte, un racconto debole

Ammazzare Stanca, il peso dell’obbedienza e il costo della ribellione nel viaggio imperfetto dentro la coscienza di un ex killer.

Quali sono le conseguenze di crescere in una famiglia legata alla ‘ndrangheta calabrese e, a un certo punto, decidere di non obbedire più? Ammazzare stanca, il nuovo film di Daniele Vicari, presentato in concorso nella sezione Spotlight – Selezione Ufficiale dell’82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta la vera storia di Antonio Zagari, figlio di un boss che – dopo anni da killer fedele – decide di fermarsi e mettere tutto per iscritto.

Non per pentimento o desiderio di redenzione, ma per un rifiuto profondo, nato dall’oppressione di un mondo intriso di violenza e regole ferree, al quale non vuole più sottostare. Una ribellione silenziosa, generata dall’asfissia di un’esistenza fondata sull’obbedienza cieca, su una brutalità ritualizzata e su un potere familiare assoluto, in un contesto in cui la ‘ndrangheta ha messo radici profonde anche nel Nord Italia.

Con l’intento di spingere lo spettatore a riflettere sull’espansione di queste organizzazioni criminali e sul loro impatto devastante sulle vite individuali, il film esplora il conflitto interiore di un uomo che comincia a mettere in discussione il codice criminale non tanto per ragioni morali, quanto per insofferenza verso un’identità impostagli fin dall’infanzia.

Il lento declino di Ammazzare stanca

Con uno stile sobrio, asciutto, privo di concessioni e di qualsiasi indulgenza sentimentale, Daniele Vicari, muovendosi tra la realtà della criminalità organizzata e la dissoluzione psicologica di un uomo in crisi, tra luci e ombre, si concentra non tanto sull’atto di cercare il perdono, quanto su quello di smettere di ubbidire. La prima parte del film, in questo senso, possiede una sua solidità grazie a una messa in scena essenziale, alla fotografia cupa e a un uso sapiente del silenzio, elementi che contribuiscono a creare un’atmosfera oppressiva, ritratto di un microcosmo feroce fatto di gerarchie familiari soffocanti e di un’obbedienza priva di alternative.

Anche i personaggi e i legami che danno forma a questa rete sono introdotti con lucidità, suggerendo molto più di quanto venga esplicitamente detto, e la figura di Antonio Zagari è da subito immersa in un ambiente che non lascia spazio se non all’esecuzione incondizionata degli ordini.

Eppure, con il procedere della narrazione, la tensione iniziale tende a disperdersi, e la seconda parte del film soffre di uno sviluppo frammentato, con passaggi insufficientemente approfonditi che indeboliscono il racconto sia sul piano del contesto sociale sia su quello psicologico. Le motivazioni di Antonio si fanno progressivamente meno incisive, e la sceneggiatura fatica a dare forza e credibilità al suo cambiamento interiore, lasciando alcune sequenze cruciali prive della necessaria carica drammatica.

Un protagonista opaco in una storia che chiede luce

Un aspetto poco convincente è l’interpretazione di Gabriel Montesi nel ruolo di Antonio Zagari. Pur confrontandosi con un personaggio centrale e ricco di sfumature, l’attore infatti fatica a restituirne il conflitto interiore, non riuscendo a trasmettere la complessità di un uomo che si risveglia alla consapevolezza di un passato opprimente, risultando così poco coinvolgente.

Montesi non incarna la freddezza magnetica di una figura enigmatica, ma appare piuttosto privo di quella tensione emotiva indispensabile a rendere credibile una trasformazione tanto profonda quanto tormentata. Le contraddizioni restano così appena accennate, privando la narrazione di dinamismo e impatto.

Si tratta forse di una scelta espressiva, che esclude qualsiasi forma di drammaticità marcata e che potrebbe essere letta come un tentativo di rappresentare l’anestesia affettiva di un uomo cresciuto nella brutalità e quindi incapace di manifestare dolore o senso di colpa. Tuttavia, per risultare valida, avrebbe richiesto una maggiore incisività, in modo di far emergere il contrasto tra la dimensione intima del personaggio e la maschera esteriore che è costretto a indossare. Invece, tutto resta ovattato, con una sottrazione che finisce per somigliare a un blocco comunicativo.

Meno deludenti, al contrario, alcune interpretazioni secondarie. Vinicio Marchioni, nel ruolo del padre autoritario e inflessibile, pur senza particolare originalità, riesce a comunicare con efficacia il peso di una figura che utilizza la violenza come unico strumento per affermare il proprio potere e dimostrare i propri sentimenti. Selene Caramazza e Rocco Papaleo, nonostante il limitato spazio in scena, delineano dinamiche e relazioni ambigue, contribuendo a sottolineare il distacco di Ammazzare stanca dai consueti racconti di redenzione.

Antonio, infatti, non cerca il perdono né si pente completamente, ma esprime un disagio crescente verso le regole imposte e i meccanismi di dominio interiorizzati fin dall’infanzia, e il suo percorso non conduce a una vera liberazione, ma al lento disfacimento di una coscienza che si risveglia troppo tardi e fatica ancora a comprendere come affrontare la nuova lucidità.

Un film imperfetto, ma coraggioso

Ammazzare stanca è un film dalle buone premesse, che sceglie la via più difficile: raccontare una vicenda intima e lacerante senza ricorrere a scorciatoie emotive o a retoriche consolatorie, offrendo spunti di riflessione autentici, soprattutto nel modo in cui indaga il peso del vincolo familiare e la fatica di sottrarsi a un sistema violento e totalizzante.

Tuttavia, non riesce a trasformare questa intuizione iniziale in una narrazione pienamente convincente. Il ritmo costantemente dilatato, la debole evoluzione psicologica del protagonista e alcune scelte espressive troppo trattenute compromettono la coerenza e l’efficacia del racconto e le tensioni restano spesso inespresse, le svolte interiori appaiono più suggerite che vissute, e l’impatto emotivo ne risente.

In definitiva, Ammazzare stanca è un’opera imperfetta ma coraggiosa, che lascia una traccia – più per ciò che prova a dire che per come riesce a dirlo.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

6


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