Belfast, la recensione: la scia di un ricordo che crea un vero atto d’amore

Belfast, la recensione: la scia di un ricordo che crea un vero atto d’amore

“A tutti coloro che sono rimasti. A tutti coloro che sono partiti. A tutti coloro che si sono persi”

“Belfast” è il film più intimo di Kenneth Branagh che racconta il vero volto della capitale nord – irlandese, negli anni 60, durante il devastante conflitto chiamato “The Troubles”, tra cattolici e protestanti, durato fino agli 90, tra rivolte ed episodi improvvisi di violenza.

Una vera guerra vista attraverso gli occhi di un bambino, Buddy, che altri non è che Branagh da piccolo. Un film fuori dal tempo, una pellicola interamente girata in bianco e nero, quasi a sottolineare un contrasto insito nella stessa società di allora, ma colorata nel profondo da un caleidoscopio di emozioni che esplodono attraverso quegli stessi occhi, in un ricordo indelebile ed intriso di amore.

Buddy, interpretato da un magico Jude Hill, a nove anni e cresce in una Belfast segnata dal conflitto nordirlandese, tra paramilitari repubblicani cattolici e unionisti protestanti.

Il padre è quasi sempre assente per lavoro (Jamie Dornan), ma fa spesso ritorno a casa, preoccupato dagli accesi conflitti. Buddy è legatissimo ai suoi nonni, Judie Dench e Ciaran Hinds, persone che hanno fatto della dignità la loro ragione di vita, pur non avendo mai avuto un bagno in casa, ma dotati di uno straordinario sense of houmor e generosità.

Buddy è perplesso di fronte alla guerra che divide la sua strada, quella strada dove ora si erigono barricate, dove vengono di mira quelle case cattoliche in un quartiere protestante.

 

“Sono amici, sono famiglie come noi, ma sono di una religione diversa”

Una famiglia spaccata dai debiti e costretta a scegliere un futuro diverso quella di Buddy, un futuro in un posto che non sentono la loro casa, ma che offre l’unica via di fuga per la libertà e la salvezza.

La pellicola si apre con una veduta a volo d’uccello sul porto di Belfast oggi, con le gru in movimento a indicare una città che si trasforma, in un mondo a colori, cullato dolcemente dalle note di Van Morrison. Poi le immagini scivolano sul viale dei ricordi e perdono quei colori vibranti, ed evocano un passato sui toni del grigio, che pur conservando l’innocenza e l’incanto di una fiaba, ha formato duramente il presente.

Una macchina da presa ad altezza bambino che ci illustra il mondo dalla sua prospettiva, per come lo vede lui, turbato dall’insensatezza di quello che sta vivendo, dall’amore per la sua compagna di banco a cui non vuole rinunciare, per i western, estasiato dal cinema, quel cinema che mostra un mondo felice e spensierato e lo accende di passione. E dall’altro lato della “barricata emotiva” Branagh ci mostra un paese che ha il più alto tasso di disoccupazione del Regno Unito e costringe gli irlandesi a cambiare punto di vista ” un popolo nato per emigrare”.

Un paese dove solo Dio sembra essere in grado di scegliere chi è buono e giusto in una notte di vergogna per Belfast che resterà impressa nella memoria. Quella memoria artefice di questo viaggio, un viaggio in bianco e nero, che non ha tempo o spazio, ma che vive dei suoi personaggi, del loro sguardo, come un palcoscenico aperto sui ricordi. Su quel detersivo “biologico” che diventa il fil rouge della svolta, la chiave di lettura di un bimbo che vorrebbe solo il meglio per la sua famiglia, con la speranza nel cuore di poter tornare a giocare a pallone con i suoi amici.

Un lungometraggio che sussurra ad ognuno di noi con gli occhi di Buddy, in un dialogo intimo con la musica di Van Morrison, anima della sua infanzia, che segna quel legame nostalgico con la sua terra, con la sua comunità. Una storia messa in scena solo attraverso una strada, qualche vicolo ed un appartamento, ma pregna di un’immensa emozione tangibile che sa andare oltre quello schermo, fino a toccarci il cuore.

“Belfast sarà ancora qui quando ritornerete”

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Chiaretta Migliani Cavina

Il Voto della Redazione:

8


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