Quentin Tarantino riscrive la storia nel cinema, mescolando finzione e realtà trasformando il passato in spettacolo.
La storia è da sempre una delle materie prime più fertili per il cinema, raccontare eventi del passato significa non solo narrare fatti, ma anche interpretare, ricordare e dare senso al presente attraverso la memoria collettiva. Il cinema storico, infatti, oscilla continuamente tra documentazione e finzione, tra rigore e libertà creativa, offrendo agli spettatori non solo una ricostruzione degli eventi, ma soprattutto un’esperienza emotiva e culturale. In questo contesto, registi diversi hanno affrontato la Storia con approcci differenti, e Quentin Tarantino si colloca nella categoria del revisionismo, proponendo una rilettura personale, ironica e spesso provocatoria del passato.
Quentin Tarantino non è un regista “storico”, non lo è mai stato e, a giudicare dalle sue stesse dichiarazioni, non ha mai voluto esserlo, tanto che in un’intervista del 2009, in occasione dell’uscita di Bastardi senza gloria, dichiarò senza mezzi termini: “Quando scrivo un film, la mia unica fedeltà è verso la storia che sto raccontando, non verso la Storia con la S maiuscola.”
I suoi film non ambiscono a una ricostruzione fedele degli eventi, quanto piuttosto a una reinterpretazione pulp, personale e spesso liberatoria, in cui la verità documentata lascia spazio alla finzione più sfacciata e spettacolare.
In film come Bastardi senza gloria (2009) e Once Upon a Time… in Hollywood (2019), Tarantino non si limita a giocare con i generi cinematografici: gioca con il tempo, con la memoria collettiva e con il destino. Sovverte gli esiti di eventi traumatici, li manipola per creare nuove mitologie, e soprattutto li mette al servizio della sua visione del cinema, ignorando volutamente i fatti per raccontare qualcosa di più viscerale e, paradossalmente, più “vero”.
Tarantino e la vendetta come strumento narrativo
Il tema della vendetta attraversa l’intera filmografia tarantiniana, da Kill Bill a Django Unchained. Ma nei suoi film a sfondo storico, questa vendetta assume una valenza collettiva e quasi archetipica, trasformandosi in un atto di giustizia simbolica contro le incarnazioni del male assoluto.
In Bastardi senza gloria, Tarantino mette in scena un commando ebraico-americano che semina il terrore tra i nazisti nella Francia occupata. Ma il vero colpo di scena arriva nel finale: Adolf Hitler, invece di suicidarsi nel suo bunker come nella realtà, viene brutalmente ucciso in una sala cinematografica parigina durante una proiezione, crivellato di colpi da due membri del commando mentre l’edificio va a fuoco. L’elemento storico crolla del tutto: non è più la realtà ad avere l’ultima parola, ma la fantasia vendicativa.
Lo stesso meccanismo ritorna in Django Unchained (2012), ambientato nel Sud schiavista pre-Guerra Civile. Qui Tarantino non riscrive la storia nel senso stretto, ma costruisce una parabola di rivalsa in cui uno schiavo liberato (Jamie Foxx) annienta simbolicamente l’intero sistema schiavista, distruggendo la piantagione e uccidendo i padroni bianchi. È un western revisionista, dove la violenza è catartica e l’ingiustizia storica viene momentaneamente “corretta” dalla narrazione.
In entrambi i casi, la vendetta diventa lo strumento con cui il regista riscrive la storia: non per dire “come è andata davvero”, ma per farci vedere “come avrebbe dovuto andare”.
La riscrittura del passato come atto di libertà creativa
Tarantino ha sempre dichiarato che per lui il cinema è uno spazio di totale libertà creativa, lo spettatore non deve aspettarsi coerenza con i fatti, ma adesione a un’idea di verità emotiva e narrativa. Questa filosofia si concretizza pienamente in Once Upon a Time… in Hollywood, una delle sue opere più personali e malinconiche.
Ambientato nella Los Angeles del 1969, il film intreccia personaggi fittizi (l’attore in declino Rick Dalton e la sua controfigura Cliff Booth) con figure storiche reali, come Sharon Tate e Roman Polanski. Tutto il film conduce lentamente verso l’inevitabile: il massacro della notte del 9 agosto ad opera della “Family” di Charles Manson.
Ma quando quel momento arriva, Tarantino spiazza tutti: i membri della setta, anziché compiere l’omicidio, vengono massacrati da Cliff Booth in un’esplosione di violenza grottesca e surreale, Sharon Tate vive, e il male viene fermato prima che possa agire. Non è solo un gioco narrativo, ma un atto d’amore verso il cinema, verso l’innocenza perduta di Hollywood, e verso le vittime reali di un trauma collettivo. Tarantino, in un’intervista, ha definito il film come “una lettera d’amore alla città in cui sono cresciuto, ma anche una favola sul potere del cinema di cambiare le cose”. In questo senso, la riscrittura del passato non è solo una provocazione: è una dichiarazione poetica.
L’influenza del cinema sulla Storia… e viceversa
Il cinema, per Tarantino, non è solo uno strumento per raccontare la storia: è esso stesso parte integrante della Storia. Le sue opere sono profondamente metacinematografiche: riflettono sul potere del mezzo filmico di incidere sull’immaginario collettivo e, in qualche modo, anche sulla memoria storica.
In Bastardi senza gloria questa riflessione è portata all’estremo: è letteralmente una pellicola cinematografica — la bobina infiammabile in nitrato — ad uccidere Hitler e i vertici del Terzo Reich. La vendetta passa attraverso il cinema. La sala diventa il campo di battaglia, il film stesso è un’arma. Shoshanna, sopravvissuta ebrea diventata proiezionista, è l’artefice dell’attentato: è lei che monta il film che accompagnerà le fiamme e la distruzione. In questo gesto, Tarantino celebra il cinema come forza salvifica, ribelle, sovversiva.
In Once Upon a Time… in Hollywood, invece, l’universo cinematografico è il vero protagonista. Tutto è filtrato attraverso lo sguardo nostalgico del regista verso la Hollywood del passato: un mondo di western televisivi, star decadenti, stuntman e studi cinematografici. La realtà si piega ai codici della finzione, e la violenza, quando arriva, è volutamente esagerata, farsesca, da cartoon, come se il cinema potesse ancora proteggere i suoi eroi, e salvarli, almeno nella finzione, dai fantasmi della realtà.
Il revisionismo pop: storia come spettacolo
Tarantino non fa “storia alternativa” nel senso didascalico del termine, il suo è un revisionismo pop, spettacolare, ironico e profondamente autoriale, non c’è pretesa di rigore, ma una volontà dichiarata di spettacolarizzare la Storia e usarla come materiale plastico da riplasmare. Il suo cinema non è interessato a “educare”, ma a far riflettere attraverso l’intrattenimento.
Un esempio lampante è Django Unchained, che pur non modificando eventi specifici della storia americana, trasforma l’epoca della schiavitù in un contesto da exploitation movie anni ‘70. Il personaggio di Django non è realistico, ma eroico, quasi mitologico: una figura larger than life, capace di ribaltare gli equilibri di un intero sistema di oppressione. Il tutto accompagnato da una colonna sonora anacronistica che mescola hip hop, Morricone e western all’italiana.
Anche The Hateful Eight (2015), pur non riscrivendo un evento storico preciso, ambienta un western da camera nell’America post-guerra civile, facendo esplodere le tensioni razziali e ideologiche ancora irrisolte. Qui Tarantino costruisce un microcosmo violento e teatrale in cui la storia americana è evocata come trauma, come conflitto eterno tra verità e menzogna.
Il revisionismo di Tarantino non pretende di spiegare, ma di evocare, divertire, e soprattutto far pensare attraverso il paradosso.
Tarantino, bugiardo onesto
Quentin Tarantino è forse il più sincero tra i registi “bugiardi”, non nasconde mai la finzione: la mette in scena con orgoglio, la dichiara nei titoli, nei dialoghi, persino nei finali assurdi. Per lui, riscrivere la Storia non significa tradirla, ma liberarla dalle gabbie della cronaca e della tragedia, per restituirla al potere creativo della narrazione.
La sua opera si muove tra cinefilia, revisionismo, mitologia pop e profondo desiderio di catarsi, e in questo riscrivere, Tarantino riesce spesso a dire verità più profonde di quelle contenute nei documentari o nei saggi storici. Perché nel suo cinema la vendetta è giustizia, il passato è modificabile, e il male può, finalmente, perdere.
Riscrivere il passato diventa così un gesto radicale, non per negare la realtà, ma per immaginare come potrebbe essere stata o come vorremmo che fosse andata, poiché, in fondo, nel mondo di Tarantino, la verità storica conta meno del potere salvifico della finzione.
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Emanuela Giuliani