La recensione di Civil War, lo sconvolgente road trip movie di Alex Garland nei cinema dal 18 aprile con 01 Distribution.
Dal 18 aprile nelle sale italiane, distribuito da 01 Distribution, Civil War, scritto e diretto da Alex Garland, è molto più di un film: è un’esperienza viscerale, disturbante e, soprattutto, necessaria. Una di quelle opere rare che, una volta viste, si attaccano addosso e non ti lasciano più perchè non si limitano a colpire, ma scavano dentro, costringendoti a riflettere su ciò che hai visto, su ciò che stai vivendo, su ciò che potresti dover affrontare.
Garland, autore visionario già acclamato per Ex Machina e Annihilation, firma qui il suo progetto più politico e radicale. Civil War attraversa e oltrepassa i confini del genere per trasformarsi in un atto d’accusa, una premonizione disturbante, una cronaca futura dal sapore fin troppo attuale. È un film che non concede tregua: una discesa negli inferi americani raccontata con lucidità chirurgica e uno sguardo al tempo stesso empatico e spietato.
In questo mondo narrativo ogni elemento, dai personaggi ai paesaggi sonori, dai silenzi agghiaccianti ai lampi improvvisi di violenza, contribuisce a costruire una tensione costante, quasi insostenibile. La brutalità non è mai gratuita: serve a generare disagio, a scuotere, a impedire allo spettatore di rifugiarsi nella distanza rassicurante della finzione. Questo è un cinema che non consola, ma interroga; non offre risposte, ma pone domande scomode, mettendo al centro un’America in frantumi, moralmente prima ancora che fisicamente, osservata attraverso la lente deformante e lucidissima della guerra civile.
L’America di Civil War è un Paese che ha smarrito sé stesso
Come lo stesso Garland ha definito, si tratta di un road movie ambientato in tempo di guerra: seguiamo un gruppo di giornalisti mentre attraversano un Paese devastato, nel disperato tentativo di documentare ciò che resta. La loro missione è semplice e al tempo stesso impossibile: raggiungere Washington D.C. per intervistare il Presidente, un gelido e distante Nick Offerman, prima che venga catturato dalle forze secessioniste, un’inedita alleanza tra Texas e California, unite contro la deriva autoritaria del governo centrale.
Il viaggio, però, è molto più di un percorso geografico: è un attraversamento simbolico dell’inferno americano, tra città ridotte in macerie, milizie armate che dettano legge, civili annientati, paesaggi in cui l’umanità sembra aver perso ogni barlume di compassione. In questa terra di nessuno le vecchie categorie politiche si dissolvono: repubblicani e democratici, destra e sinistra, tutto si confonde e si annulla, schiacciato dalla logica primitiva della sopravvivenza. La guerra ha divorato ogni cosa, ideali, motivazioni, speranza, lasciando solo una realtà feroce, dominata dalla paura e dalla violenza.
Protagonista della narrazione è Lee, interpretata da una straordinaria Kirsten Dunst: fotoreporter veterana, silenziosa e implacabile, incarna la stanchezza e la lucidità di chi ha visto troppo per credere ancora a qualcosa. Al suo fianco troviamo Joel (Wagner Moura), reporter carismatico e impulsivo; Sammy (Stephen McKinley Henderson), memoria vivente del giornalismo d’altri tempi; e Jessie (Cailee Spaeny), giovane alle prime armi, simbolo di un’innocenza destinata a spegnersi troppo in fretta.
Attraverso i loro occhi Garland costruisce una narrazione profondamente soggettiva, capace però di toccare corde universali. Laa cinepresa li segue nel cuore dell’oscurità, tra spari, esplosioni e silenzi carichi di tensione, e il risultato è un’immersione totale, quasi ipnotica, che avvolge lo spettatore e lo trascina in un incubo fin troppo vicino alla realtà. Un incubo la cui essenza è racchiusa in una delle battute più agghiaccianti del film: “A chi appartieni?” – “Sono un uomo che vuole uccidere un altro uomo prima che lui uccida me.”
Nella guerra, le appartenenze si svuotano di significato, gli ideali si dissolvono: non restano più fazioni, bandiere o spiegazioni, ma solo la logica brutale della sopravvivenza. Una riflessione amara e universale, che supera i confini degli Stati Uniti per interrogare ogni società sull’orlo del collasso.
La colonna sonora, calibrata con grande intelligenza, alterna esplosioni sonore a silenzi assordanti, amplificando lo stato d’allerta costante. Anche i suoni, urla, spari, il clic secco della macchina fotografica, diventano parte integrante del linguaggio emotivo del film, contribuendo a creare un’atmosfera carica di tensione, sospensione e paura palpabile. La regia di Garland è essenziale: ogni inquadratura è studiata per destabilizzare, colpire, generare una reazione emotiva, e la fotografia, grigia e opprimente, suggerisce che persino la luce stia abbandonando la civiltà, lasciando spazio a un buio senza appello.
Civil War non è un film distopico, né un semplice avvertimento: è il riflesso spietato di un presente che ha già iniziato a sgretolarsi, è la rappresentazione disturbante di una società che ha perso ogni riferimento e non sembra più capace di reagire, è una denuncia, forte e implicita, di un mondo in cui il confine tra realtà e incubo si fa ogni giorno più sottile. Garland ci pone davanti a uno specchio senza filtri, che ci costringe a guardare: perché il vero orrore non è quello sullo schermo, ma quello che abbiamo fuori.
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Emanuela Giuliani
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