“C’mon C’mon”: un passo a due che bisbiglia tra futuro e resilienza

“C’mon C’mon”: un passo a due che bisbiglia tra futuro e resilienza

“Spetta alle madri dipingere la realtà con colori sgargianti e vivaci e renderla tranquilla e sicura”

L’ultima pellicola di Mike Mills ripercorre un terreno a lui familiare, tra lutto, l’essere genitori e le difficoltà di una vita “responsabile” e li porta in scena attraverso il personaggio di Johnny, Joaquin Phoenix, un intervistatore radiofonico, estremamente solitario al di fuori dell’ambito lavorativo. Un Phoenix che dopo il ruolo di Joker, torna sugli schermi con un ruolo fragile, intimo, che deve confrontarsi con le incombenze della genitorialità.

Sua sorella Viv, scossa dalla recente morte della loro madre, è costretta a correre da suo marito Paul, Scoot McNairy, dalla labile stabilità emotiva e psicologica, e chiede a suo fratello Johnny di prendersi cura del suo bambino Jesse, Woody Norman, in sua assenza. Jesse ha 9 anni, ma è molto più maturo della sua età, ha una mente avida, costantemente in movimento e un’immaginazione fervida e incontrollabile.

Dietro una quinta quasi teatrale di una relazione familiare tesa e piena di violenti imprevisti, il film nasconde un animo tenero e quieto, che ha il suo fil rouge nel dialogo tra generazioni e nella possibilità di dare voce a chi non ne ha, come i bambini ed i ragazzi.

“Se pensi al futuro come te lo immagini? L’America è una vera tragedia, la gente non viene trattata equamente”

Una forma filmica sui toni del grigio in 4:3 lega la narrazione con i colori insiti nelle interviste ai bambini realizzate da Johnny e con gli stralci di libri letti al nipote, accompagnati come sempre nelle pellicole di Mills, da una connessione sonora determinante, che impenna il ritmo emozionale della pellicola, su tutti il brano di Lou Reed vecchia maniera “Do the Ostrich”.

Una scelta legata alle declinazioni del cinema americano, a partire dal formato legato alla vecchia Hollywood, fino alle tre metropoli che zio e nipote attraversano nel loro viaggio on the road, che rappresentano tre diverse visioni cinematografiche.

La California è la terra della diversità generazionale e geopolitica, che si allunga tra le infinite sabbie delle sue spiagge, “ma non la trovi noiosa tutta questa sabbia, questo sole, questi corpi” chiede lo zio newyorkese al nipote, mentre è il luogo dove perdersi e riuscire a diventare anonimi come Johnny, tra le folle sui marciapiedi, le ombre delle incessanti luci e i rumori della città.

Per chiudere ed arrivare a New Orleans, luogo dell’anima e ricongiungimento delle radici di intere comunità, un tempio dove poter ritrovare se stessi, come farà finalmente il piccolo Jesse, ammettendo di non stare poi così bene.

“Ora c’è più libertà di esprimere i propri sentimenti ma non è detto che sia facile”

Anche la macchina da presa amplifica questo racconto emotivo, scrutando i pochi personaggi sulla scena come se fosse uno sguardo, presente ma riservato, uno strumento per tracciare i toni del quadro sentimentale quotidiano, una camera che trova il suo alter ego nelle interviste di Johnny.

“Quello che faccio dà a me l’accesso per qualcosa dove non potrei entrare e mi fa sentire invisibile e invincibile e quello che faccio permette a loro di proiettare quello che non possono controllare”

Un’interpretazione magistrale e intensa di Joaquin Phoenix, che brilla in un passo a due con il piccolo Woody Norman, dimostrandosi un vero uragano di espressività.

Una pellicola che rende la storia di “uno” quella di “molti”, in Jesse, nelle risposte dei bambini intervistati sul concetto di futuro e comunità e nel difficile compito di Johnny, che finisce per crollare sotto il peso di una giovane vita sulle sue spalle, perchè “la maternità è quel luogo della nostra cultura dove seppelliamo tutti i nostri ideali”.

“Abbiamo tutti una zona di resilienza, succedono cose che non ti immagineresti ed allora devi solo fare il tifo”

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Chiaretta Migliani Cavina


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