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Dead Man’s Wire, la recensione: il ritorno di Gus Van Sant tra follia, giustizia e spettacolo mediatico

Il ritorno di Gus Van Sant alla Mostra del Cinema di Venezia tra follia, giustizia e spettacolo mediatico con Dead Man’s Wire.

Gus Van Sant firma il suo ritorno al grande cinema portando fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, giunta alla sua 82esima edizione, Dead Man’s Wire, uno dei sequestri più assurdi e mediatici mai avvenuti negli Stati Uniti.

Il film infatti, è ispirato al caso reale di Tony Kiritsis, che la mattina dell’8 febbraio del 1977, entrò nell’ufficio di Richard O. Hall, presidente della Meridian Mortgage Company, e lo prese in ostaggio con un fucile a canne mozze calibro 12 collegato con un “dead man’s wire”.

Questo macabro e ingegnoso meccanismo consisteva in particolare in un filo collegato al grilletto del fucile e avvolto attorno al corpo del sequestratore, in modo che se fosse stato ucciso o fosse svenuto, l’arma si sarebbe attivata automaticamente, uccidendo l’ostaggio. Una trappola mortale, pensata per impedire qualsiasi tentativo delle forze dell’ordine di intervenire, e che nel film diventa anche una potente metafora, ovvero un legame tra carnefice e vittima che sfida ogni logica, segnando la sottile linea tra disperazione e follia.

Un thriller psicologico teso tra realtà e metafora

Van Sant dirige con mano sicura un thriller psicologico che evita le facili spettacolarizzazioni, mantenendo invece un’atmosfera intensa e coinvolgente. La storia si svolge quasi interamente in ambienti chiusi e claustrofobici — come l’appartamento dove avviene il sequestro, le redazioni dei telegiornali, e le sale operative della polizia — creando un senso di tensione costante, resa ancora più palpabile dall’uso delle riprese in stile live broadcast, che ricordano la copertura mediatica dell’epoca e fanno sentire lo spettatore come parte della vicenda in tempo reale.

Il montaggio alternato tra la diretta televisiva e il volto sempre più stanco e furioso del protagonista Kiritsis comunica molto più di quanto potrebbero fare le parole, mostrando la crescente disperazione e rabbia che lo consumano.

Come in altri suoi lavori, come Elephant o Paranoid Park, Van Sant continua a esplorare le fratture sociali nella società americana. In particolare, mette in luce il divario tra il cittadino comune e le strutture di potere, mostrando come questa distanza possa trasformare la frustrazione in una rabbia cieca e pericolosa. Il regista invita così a riflettere sulle cause profonde di queste tensioni sociali, senza mai cadere nella spettacolarizzazione superficiale.

Al centro c’è Tony Kiritsis, figura tragica e disturbante, che non incarna il male puro ma piuttosto l’esasperazione di un uomo che si percepisce come vittima di un sistema disumano. Interpretato da uno straordinario Bill Skarsgård, Tony non è un semplice criminale, ma un uomo ferito, consumato dal senso di ingiustizia e convinto di non avere più nulla da perdere. La sua voce, amplificata dai microfoni della stampa, diventa il simbolo di un’umanità ignorata, che non trova altri mezzi per farsi ascoltare se non il gesto estremo. Il sequestro non è soltanto un atto violento: è una richiesta di attenzione, nonché il tentativo di sovvertire un ordine percepito come errato.

Van Sant costruisce quindi una narrazione profondamente ambigua, che mostra quanto sottili possano essere i confini tra vittima e carnefice, tra ragione e delirio, e non offre comode certezze ma solleva interrogativi scomodi, quali: chi ha davvero fallito? L’individuo, o il contesto che lo ha generato?

Il tutto è orchestrato con un’ironia sottile e intelligente, che invita lo spettatore a riflettere senza mai imporgli una lettura univoca, agendo quasi come uno specchio deformante: ciò che appare tragico può rivelarsi assurdo, ciò che sembra normale diventa inquietante. Non scende mai in una visione drammatica, bensì mantiene un tono vivace, che contribuisce a rendere l’esperienza coinvolgente e originale. Il ritmo dinamico, inoltre, mantiene costantemente viva l’attenzione e le aspettative dello spettatore.

A questo si aggiungono le interpretazioni che contribuiscono in modo decisivo alla potenza del film. Bill Skarsgård è semplicemente magnetico. Il suo Tony è disturbante ma anche profondamente umano. Non è un folle da manuale, ma un uomo qualunque che si sente abbandonato, deriso, ignorato. La sua disperazione è vera, e proprio questo lo rende pericoloso, e il suo volto si trasforma scena dopo scena: la stanchezza, la rabbia, l’illusione di poter ottenere giustizia si leggono nei suoi occhi come in un libro aperto.

Montgomery, nei panni dell’ostaggio, riesce a trasmettere terrore e vulnerabilità senza mai risultare passivo, mentre Al Pacino, pur con pochi minuti sullo schermo, regala una performance asciutta e incisiva, incarnando la voce dell’esperienza e del disincanto.

Quando il dolore diventa spettacolo

Dead Man’s Wire non è solo un thriller psicologico: è uno sguardo lucido e inquieto su una società che spesso ignora chi grida aiuto fino a quando non è troppo tardi. Van Sant mette in discussione il potere dei media, capaci di trasformare la tragedia in intrattenimento, e suggerisce che ogni spettatore — reale o cinematografico — ha una parte nel perpetuare questa dinamica.

Il film diventa così un atto di denuncia sottile ma incisivo, che lascia emergere una verità inquietante, che ci mette di fronte a un paradosso: mentre condanniamo certi gesti estremi, allo stesso tempo li osserviamo con morbosità, trasformandoli in spettacolo. Con uno stile senza moralismi, Van Sant ci lascia con un senso di disagio e riflessione, ricordandoci che, in certi casi, non esistono risposte semplici — solo storie complesse che meritano di essere ascoltate fino in fondo.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

8


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