Dogman, la recensione: la fiaba nera di Matteo Garrone tra degrado e riscatto

La recensione di: Dogman, la fiaba nera di  Matteo Garrone liberamente ispirato al delitto del Canaro avvenuto a Roma degli anni ’80.

Matteo Garrone, con il suo attesissimo Dogman, presentato in concorso al Festival di Cannes 2018, realizza una potente fiaba nera ispirata all’efferato omicidio dell’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci, avvenuto alla fine degli anni ’80 per mano di Pietro De Negri, noto come “Il Canaro della Magliana”. Il regista, tuttavia, non intende ricostruire fedelmente il macabro episodio, ma lo utilizza come sfondo per esplorare temi più profondi e universali: la solitudine, l’emarginazione e la violenza latente nell’essere umano.

Il film si svolge in una periferia degradata, un ambiente malato e ostile dalla spettrale verosimiglianza, impregnato di paura e rassegnazione. Un luogo dove domina la legge del più forte e in cui il solo calore sincero è rappresentato dagli amati cani accuditi dal protagonista, il mite toelettatore Marcello (interpretato magistralmente da Marcello Fonte). Egli trascorre le sue giornate nel suo modesto salone, diviso tra il lavoro, l’adorata figlia Alida (Alida Baldari Calabria) e il soffocante rapporto di sudditanza con Simoncino (Edoardo Pesce), un ex pugile tossicodipendente che terrorizza l’intero quartiere.

L’inevitabile scontro tra vittima e carnefice

Garrone tratteggia con meticolosa cura il dramma di un uomo fragile e remissivo che, a seguito dell’ennesima sopraffazione, vede scatenarsi in sé un’ira fino a quel momento sopita. Il piccolo Marcello, schiacciato dalla brutalità di Simoncino, decide infine di ribellarsi, cercando un riscatto che si trasforma in una spirale di violenza e autodistruzione. Il film mette in luce la brutalità latente in ogni individuo, svelando il confine sottile tra vittima e carnefice, due facce della stessa medaglia, generate da una vita che non offre alternative, ma solo squallidi mezzi di sopravvivenza.

Dogman è un’opera che cattura e sconvolge, una narrazione che scorre senza filtri sotto pelle, scuotendo con determinazione mente e cuore. Garrone costruisce un crescendo di tensione emotiva che culmina in un epilogo carico di angoscia e al tempo stesso di disarmante dolcezza. Il film non si limita a raccontare una storia di vendetta, ma offre una riflessione profonda sulla disperata ricerca di dignità e redenzione di un uomo abbandonato a sé stesso. Il risultato è un finale che sorprende per la sua capacità di suscitare un misto di inquietudine, tenerezza ed emozione, lasciando nello spettatore una sensazione di amara e malinconica commozione.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

8


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