Dopo vent’anni, “The Wire” è ancora la migliore serie crime di sempre

Dopo vent’anni, “The Wire” è ancora la migliore serie crime di sempre

Nel giugno 2002 usciva per la prima volta la serie capace di cambiare completamente lo storytelling sulla microcriminalità americana.

Sono passati esattamente vent’anni da quando la HBO faceva un altro pezzo di storia del piccolo schermo, proponendo il suo pubblico una serie crime come non se ne erano mai viste, come non si sarebbe vista neppure in seguito se è per questo.

“The Wire” ancora oggi può fregiarsi del titolo di prodotto narrativo per il piccolo schermo più innovativo, realistico, meglio strutturato e approfondito della storia, per quello che riguarda la criminalità. Fu uno squarcio dentro Baltimora, ma più ancora dentro il fallimento della società americana, della sua incapacità di realizzare l’ideale dell’uguaglianza, di quell’integrazione che ancora oggi è un miraggio, che rende le minoranze vittime di se stesse, di un degrado ributtante e sistematico.

“The Wire” era nata grazie allo straordinario lavoro di cronista e scrittore di David Simon, che prima sulle pagine del “The Baltimore Sun”, poi come scrittore e infine direttamente come showrunner e autore di questa serie, ha cambiato completamente il modo di guardare alle strade e al concetto di microcriminalità.

“The Wire” è stata una serie completamente orizzontale, una lunghissima e corposa odissea tra le strade della Baltimora di fine anni 90 e di inizio millennio, quando il sogno di avere un Presidente afroamericano era ancora giudicato miraggio e bene o male cocaina, eroina, crack e ogni altro tipo di narcotico erano sostanzialmente la moneta corrente, la cosa più importante di tutte le interno dei ghetti.

“The Wire” ci fece conoscere un universo spietato, violentissimo e contraddittorio, bande capeggiate da individui torbidi e oscuri, crudeli e infidi, capaci di tradire, di uccidersi per uno sguardo sbagliato.

Un universo machista, con un mal riposto concetto di leadership, in virtù del quale accaparrarsi un vicolo in più o una partita di droga in più ad ogni costo, difendere il proprio nome come una bandiera.

Il tutto sotto lo sguardo di un corpo di polizia, che nessuna serie prima di allora aveva dipinto in modo talmente critico e spietato, descrivendoli sostanzialmente come una sorta di potere parallelo del tutto disinteressato a cambiare le cose ma semplicemente a controllarle.

Non sanno indagare, non sanno interrogare, di base sono una forza paramilitare, in cui gli alti ranghi sono interessati solo alla politica, mentre chi va in strada ad un certo punto neppure sa più come distinguere se stesso da chi dà la caccia, abbraccia compromessi assurdi. Si cerca quasi sempre di tenere l’insieme sotto un certo livello di criticità per non attirare l’attenzione dell’opinione pubblica o della stampa.
Ogni stagione della serie si sarebbe concentrata su un aspetto differente della città, ancora oggi una delle più pericolose d’America, quasi quanto la tanto celebrata Detroit. Ma se l’ex regina dei motori ci ha donato soprattutto rapper e idoli della NBA, Baltimora ancora oggi è di base un gigantesco campo di battaglia tra disperati.

Avon Barksdale, Marlo, Russell Bell, D’Angelo, Omar Little, Partlow, Snoop, Proposition Joe, Cheese, Dee-Dee…nomi da strada e in codice, roba da vichinghi o da galera, in fin dei conti le regole dell’universo criminale si ripete sempre, e quel nome di battaglia può piacere oppure meno ma è quello con cui saranno ricordati. Ad interpretare questa fauna urbana, “The Wire” poté vantare interpreti d’eccezione, compresi quasi tutti i migliori caratteristi afroamericani, ma anche rapper, giocatori dell’NBA, ex galeotti, molti che di base erano cresciuti o nella stessa Baltimora o in ambienti molto simili.

In fin dei conti un’operazione non poi tanto diversa da quella che Garrone, Sollima o Scorsese sovente hanno fatto nelle loro opere. L’elenco comprende Idris Elba, Method Man, Michael K. Williams, Felicia Pearson, Wood Harris, Dominic West, Wendell Pierce, Cedric Daniels, Clarke Peters e tanti altri.

“The Wire ha letteralmente stregato il pubblico mondiale fin dall’inizio, il paradosso è che in Italia a lungo è stato una serie per pochi eletti, snobbata per la sua scarsa attrattiva estetica dalle nostre emittenti giurassiche e dalle distribuzioni. Poi invece col tempo ci si è resi conto che era ed è ancora oggi un capolavoro, il più potente affresco socio-culturale mai fatto sul fenomeno della droga e la realtà degli ultimi in America, scevro da ogni retorica e ogni perbenismo.

La droga è morte ma è anche vita, la droga è letteralmente l’unica cosa che dà da mangiare ad intere fette di società americana, un veleno che bene o male è stato introdotto forzatamente dentro il corpo dei ghetti, di quelle minoranze che già ai tempi di Nixon si pensava che bisognasse in un qualche modo sopire, rendere inoffensive attraverso il degrado, lo stesso che poi di riflesso abita dentro le forze di polizia, il governo cittadino e la burocrazia.

“The Wire” ci mostrò con uno sguardo gelidamente freddo e chirurgico, la realtà di una società che si basa sulla guerra tra disperati, il consumismo da sognare e accarezzare, la negazione del diverso, ma anche sul razzismo. Il tutto in un inferno da cui è impossibile uscire perché non vi sono i mezzi, né scolastici né tantomeno economici, per creare un futuro diverso da quello del degrado e dalla criminalità per chi nasce nelle tante Baltimora d’America. Di base la sensazione che la segregazione continui con altri mezzi si fece potente fin da subito.

Eppure, la cosa più incredibile è che in realtà in quel mondo crudele, ributtante in cui non esistevano né amici né alleanze vere, era impossibile non rimanere affascinati dallo sprezzo del pericolo, dalla determinazione e coerenza che molti di quei gangster di strada e aspiranti tali dimostravano.

Non fosse altro per il fatto che la morte la conoscevano fin troppo bene, ne davano scontato la visita ben prima della tarda età, per il fatto che sapevano che da quelle strade non se ne sarebbero mai andati.

A tutti gli effetti, The Wire” si pose anche come trattato del comando e della guerra, roba da Sun-Tzu o Machiavelli, della strategia da Bisanzio antica o corte d’Inghilterra, solo che stavolta ad ordire piani e complotti, erano uomini e donne nati nello squallore.

A vent’anni di distanza, non è possibile in alcun modo sottovalutare l’impatto che ha avuto questa serie presso il pubblico e la società americana, che fino a quel momento avevano quasi sempre parlato sostanzialmente di poliziotti, al massimo si erano spinti nel dipingere come torbidi o corrotti in un altro capolavoro di quel periodo come fu “The Shield”.

“The Wire”, con le sue frasi sul senso della vita e del combattere, la sua perfetta disamina dell’ipocrisia che si nasconde dietro la struttura stessa della società americana, rimane un gioiello senza pari, un’opera di chiara ispirazione civile scevra da ogni sensazionalismo, quasi al livello documentaristico.

Ciò che veramente rattrista è fatto che il suo esempio non sia più stato raccolto, ci si è preferiti concentrare su una narrazione incredibilmente più neutra e semplice, si è nascosta la polvere sotto il tappeto invece di renderla ben visibile.

Se Scorsese sempre in quell’anno con “Gangs of New York” ci ricordava che l’America è nato nelle strade, The Wire” invece ci ha fatto capire che non tutte le strade sono uguali, molte sono rimaste le stesse, alcune invece si vuole che rimangono le stesse, nel paese della libertà in cui si è schiavi dalla nascita del quartiere in cui si nasce.

Giulio Zoppello

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