Dracula. L’amore perduto di Luc Besson: un film visivamente affascinante ma privo di anima, che svuota il mito del vampiro.
Ogni regista ha il proprio tallone d’Achille, e per Luc Besson, cineasta francese noto per la sua estetica fortemente stilizzata e per aver oscillato negli anni tra blockbuster visionari (Léon, Il quinto elemento) e opere più intime, sembra essere il Conte Dracula. Dopo una carriera segnata da un costante tentativo di coniugare spettacolo e introspezione, con Dracula. L’amore perduto Besson affronta per la prima volta il mito del vampiro, scegliendo una rilettura tragico-romantica che promette profondità ma si rivela emotivamente vuota.
Non basta infatti il talento camaleontico di Caleb Landry Jones, né la cura maniacale per l’immagine: il film, presentato alla XX edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public, fallisce là dove dovrebbe brillare, trasformando un’icona gotica carica di storia in una figura statica e spenta. Quella che avrebbe potuto essere una riflessione struggente sull’eternità, la perdita e la dannazione, si trasforma in un’esperienza solenne ma priva di coinvolgimento, dove l’estetica prende il sopravvento sulla narrazione.
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Un Dracula svuotato dal dolore
In Dracula. L’amore perduto, la ricca premessa e l’interessante svolta di umanizzare l’iconica figura del vampiro, spogliandola dei tratti più mostruosi per mostrarne la fragilità e il dolore, si traduce purtroppo, in uno sviluppo piatto e monotono. Il film infatti confonde lentezza con profondità, immagine con emozione, e dimentica di costruire una narrazione capace di affascinare davvero.
Non seguiamo più un predatore, ma il lamento di un’anima dannata, intrappolata da un eterno presente fatto di rimpianti e visioni. Una creatura immobile il cui dolore per l’amata perduta torna senza mai evolvere come sospeso, con il passaggio chiave del rifiuto di Dio, che avrebbe dovuto avere un impatto tragico, ridotto a una facciata senza il peso emotivo necessario.
Caleb Landry Jones, attore di grande carisma, si ritrova così imprigionato in un ruolo che non vive davvero. Nonostante l’intensità della sua presenza scenica, il personaggio di fatto è scritto in modo tale da crogiolarsi nella sofferenza anziché confrontarsi con essa. Il suo Dracula non seduce né commuove: è un’ombra passiva, più simbolo che essere umano, più icona che personaggio. Il tormento eterno diventa ripetizione, l’amore ossessivo perde spessore, e temi centrali come la fede negata e la condanna eterna scivolano verso la caricatura.
Anche il cast secondario soffre di una scrittura debole. Christoph Waltz, in Abraham Van Helsing, antitesi spirituale del protagonista non lascia un segno incisivo. Matilde De Angelis, nei panni di Lucy Westerna, discepola sedotta dal male, resta un’idea incompiuta, e Guillaume de Tonquédec, del Dr. Seward, non riesce a diventare una vera controparte narrativa. Zoë Bleu, nella parte dell’amata perduta, Elizabeth/Mina eterea e malinconica, manca della profondità necessaria in grado di giustificare la portata dell’afflizione di Dracula.
Il mondo che circonda il protagonista, visivamente suggestivo, sembra esistere solo in funzione del suo dolore. I crocifissi spezzati, le chiese sconsacrate, le statue che piangono sangue: tutte immagini potenti, ma prive di una reale sostanza simbolica. La spiritualità corrotta è evocata, ma mai davvero indagata, e il dolore diventa una decorazione estetica.
Il paragone con altre celebri interpretazioni del personaggio è così inevitabile e impietoso. Nel Dracula di Coppola (1992), Gary Oldman fondeva mostruosità e umanità in un racconto barocco, viscerale, attraversato da una vera tensione romantica. Nel Nosferatu di Herzog (1979), Klaus Kinski incarnava un vampiro tragico, la cui sofferenza era silenziosa ma autenticamente lacerante. Persino il muto di Murnau (1922), con la sua potenza visiva ed espressiva, riusciva a tenere insieme orrore e pietà.
Rispetto a queste incarnazioni, il Dracula di Besson appare confuso e incompleto: troppo umano per incutere timore, troppo statico per generare empatia. Non è simbolo né individuo autentico, ma una figura priva di direzione, chiusa in una sola maschera sempre uguale. Parla di dannazione e redenzione, ma non affronta mai davvero nessuna delle due. Besson cerca un vampiro poetico e interiore, ma si ferma all’immagine, alla superficie.
E’ un dolore, che anziché rivelare, inghiotte, e il mondo intorno a Dracula esiste solo in funzione della sua sofferenza, annullando ogni altro possibile conflitto o prospettiva. Il risultato è un racconto monocorde, claustrofobico e senza sviluppo, con un’ossessione per il tormento che non porta da nessuna parte, e dove l’eternità diventa noiosa.
Un sogno visivo senz’anima
Dracula. L’amore perduto è un film che punta in alto ma non lascia il segno. L’ambientazione affascinante e la fotografia curata offrono momenti di indubbio impatto visivo, ma tutto resta in superficie, e il racconto si muove lentamente, alternando lunghi silenzi a dialoghi ridondanti, senza mai costruire un vero percorso interiore. I grandi temi del dolore, della fede e dell’immortalità, vengono richiamati più volte, ma sempre in modo iterativo, senza una reale crescita o approfondimento.
Il personaggio stesso di Dracula, svuotato del suo lato mostruoso e ridotto a simbolo di un tormento immobile, diventa una figura fissa, orfana di tensione o desiderio. Anche gli altri personaggi restano abbozzati, al servizio di un’estetica ricercata ma fine a sé stessa. Più che una nuova rilettura della storia, il film punta sulla bellezza delle immagini, mancando di dare contenuto alla narrazione.
È un’opera curata ma fredda, che non riesce a coinvolgere né a commuovere, e che finisce per apparire distante proprio nel suo tentativo di essere profonda. Detto ciò, è possibile che alcuni spettatori, più inclini a un cinema contemplativo e visivamente astratto, possano apprezzarne l’estetica rarefatta e il ritmo ipnotico: in questa chiave, il film potrebbe essere letto come un’esperienza sensoriale più che narrativa. Tuttavia, una maggiore consapevolezza di questa possibile ambiguità avrebbe aggiunto spessore e profondità all’opera.
Dracula. L’amore perduto è uno sguardo spento su una figura che dovrebbe bruciare di passione, un viaggio nella dannazione che si arresta alla superficie del dolore, senza mai penetrarne davvero il cuore.
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Emanuela Giuliani
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