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Eddington, la recensione è un brutto passo falso per Ari Aster

Alla Festa del Cinema di Roma presentato il film del regista americano, un mix di genere sconclusionato e irritante.

Ari Aster era considerato il futuro dell’autorialità americana, almeno così si diceva ai tempi di “Hereditery” e “Midsommar”. Ma dopo “Beau ha paura”, il cineasta newyorkese inciampa di nuovo, malamente tra l’altro, trascinando con sé un Joaquin Phoenix che ormai fa sempre lo stesso personaggio.

Uno sceriffo in crisi esistenziale in una città folle

Da Cannes alla Festa del Cinema di Roma, ma ovviamente il risultato non cambia, non può cambiare. Eddington forse non è il film peggiore di Aster, ma di certo è quello più furbo, più scontato, più derivativo, verrebbe da dire persino più paraculo, se non fosse che a capirlo ci si mette un amen. Non badate alla critica internazionale, soprattutto quella anglosassone, per loro Aster non sbaglia mai, soprattutto quando lo fa palesemente.

Dirige e scrive questa specie di mix tra western moderno, crime, dramedy, in cui ci infila di tutto e di più, ma senza trovare un equilibrio se non nel suo manierismo, nella sua mancanza di vera originalità. Siamo nel New Mexico, ad Eddington, c’è uno sceriffo sfigato, succube della moglie Louise (Emma Stone), in attrito con il Sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal), nel pieno della campagna elettorale e persino con la madre Dawn (Deirdre O’Connell). Si chiama Joe Cross (Joaquin Phoenix), ed è l’antitesi totale di John Wayne. Quando arriva il CODIV-19 e il conseguente lockdown, tutto si fa difficile, ma quando poi viene ucciso George Floyd, la piccola città di Eddington diventa un microcosmo caotico e violento, in cui lui giocherà una partita determinante ma per nulla positiva.

Eddington fin dagli inizi, si connette in parte alla cinematografia dei Fratelli Coen, con quell’universo sordido, classico, apparentemente manicheo. C’è anche qualcosa di Tarantino però, e già qui si comincia ad intuire il solito, vecchio difetto di Ari Aster: non ha mai smesso, veramente di essere uno studente di cinema, di essere derivativo e basta.

Tecnicamente a Eddington non puoi dire nulla, la regia è ottima, la fotografia di Darius Khondji pure, la colonna sonora è azzeccata. Purtroppo, è tutto il resto che alla fin fine fa venire un dubbio: ma ci è o ci fa Ari Aster?

Eddington ci parla dell’America prima, durante e dopo la pandemia, dei suoi sconvolgimenti culturali, sociali, dell’importanza del giornalismo e della comunicazione, della deriva individualista, della società dello spettacolo. Ci mette in mezzo un po’ di razzismo, il culto della personalità che è tornato di moda a destra e a sinistra, la violenza dell’estrema destra fascista e armata. Il problema è come rimanga sempre in superficie, un po’ come i suoi personaggi.

Tanto fumo ma poco arrosto in questo mix di genere

Su questo si può ragionare, e magari convincersi che sia coerente proprio con la loro visione del mondo, con quella parzialità che li fa diventare caricaturali, feroci, ridicoli. Tuttavia, appare una via di fuga troppo prevedibile, troppo facile per Ari Aster, uno che si è sempre fregiato di audacia, ma che qui alla fin fine, fa il classico dei trucchi: mette tutto in mano a Joaquin Phoenix e chi s’è visto s’è visto. Il fu Joker ormai è abbonato a questi personaggi estremi, ridicolmente privi di una stabilità, di un coraggio seppure minimo di una possibilità di riscatto.

Eddington sposa una tesi semplice: l’America è una giungla priva di empatia, solidarietà, la violenza è una costante e trova sempre il modo di celebrarsi. Ma non è niente di nuovo, niente di sorprendente, niente di così affascinante. Tanti altri registi negli ultimi anni ce l’hanno detto, anzi anche nell’ultimo decennio almeno.

Ari Aster concepisce svolte che sono inconcludenti, personaggi che non aggiungono e non tolgono nulla, come il guru di Austin Butler, sorta di mix tra un influencer, un tronista e un predicatore. Emma Stone fa…Emma Stone, ormai pure lei è ingabbiata nella fuori di testa manierista e odiosa, nell’esemplificazione di ciò che non funziona nell’umanità.

Unico elemento interessante è il citazionismo (tanto per cambiare) tra Rambo, Predator, John Ford, ma è tutto così messo alla rinfusa che non si riesce comunque a farsi piacere questo tizio stralunato, criminale e sceriffo mediocri, questa visione così clownesca che vorrebbe far ridere ma non fa mai ridere.

Ari Aster poi va verso la distopia, che manco distopia è, semplicemente un realizzare verso quale baratro ci siamo spinti, sviluppa certo il tema delle fake news, dell’instabilità cognitiva sempre più opprimente, ma pure qui non c’è un guizzo, un qualcosa oltre la mera riproduzione di ciò che già ci circonda. Sta andando verso un calo vertiginoso di calibratura e qualità complessiva la sua scrittura, è incredibile vedere nel giro di pochi anni quanto si sia adagiato su una involuzione preoccupante. Rimane l’impressione di un’incertezza di fondo, di un eccesso di idee o meglio intenzioni nel suo cinema, che può e deve rivedere.

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Giulio Zoppello

Il Voto della Redazione:

4


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