Guillermo del Toro e il cast raccontano Frankenstein, un sogno diventato film all’82esima Mostra di Venezia.
Alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dopo la proiezione in anteprima mondiale, l’attesa era palpabile per la conferenza stampa di Frankenstein, l’ultima opera visionaria di Guillermo del Toro, che, dopo il successo de La forma dell’acqua, premiata con il Leone d’Oro e l’Oscar, torna a esplorare il mondo del fantastico con un adattamento personale e profondamente umano del celebre romanzo di Mary Shelley.
In una sala gremita di giornalisti, Del Toro — affiancato dai protagonisti Oscar Isaac, Jacob Elordi e Mia Goth — ha presentato la sua personalissima trasposizione del mito.
Qui la RECENSIONE: Frankenstein di Guillermo del Toro, recensione: la solitudine della Creatura è lo specchio dell’uomo
“È qualcosa che va oltre un sogno: è quasi una religione. Sono cresciuto come un cattolico fervente e non capivo bene la questione dei santi. Ma quando vidi Boris Karloff sullo schermo, compresi quale potesse essere l’aspetto di un messia”, svela il regista messicano. “Seguo la Creatura fin da quando ero bambino e ho sempre aspettato il momento giusto per realizzare questo film nelle condizioni migliori, soprattutto creative. Per me era fondamentale farlo in modo diverso, su una scala diversa, in modo da toccare il mondo intero. Ora, però, mi sento in uno stato di depressione post-partum.”
“Sono stato ossessionato da Frankenstein fin da piccolo, e tutto quello che ho fatto nella mia carriera è stato un percorso di apprendimento che mi ha portato fin qui. Quello che non sapevo allora era che, pensandolo come un film sul rapporto tra padre e figlio, sarebbe diventato per me anche una riflessione sulla paternità vissuta. Dopo essere diventato padre, ho capito che questa doveva essere la storia del secondo padre e del secondo figlio. Sono felice di aver aspettato e sono grato di non averlo fatto 10, 20 o 30 anni fa”, continua Del Toro.
“Quando ho incontrato i produttori della serie con cui collaboro, mi hanno chiesto cosa avrei voluto realizzare. Risposi: Pinocchio e Frankenstein. Ho voluto creare un mondo intero, in cui la prima parte avesse una certa palette cromatica e la seconda un’altra, mantenendo però sempre un’immagine coerente. Quando sei regista, puoi decidere se essere ospite o se ospitare la troupe e gli attori. Io volevo che fosse un banchetto per tutti, in modo che ciascuno sentisse il film come proprio, come se stesse creando il suo film. Questo era il mio intento.”
“Ho sempre detto: costruiamo insieme i costumi, creiamo i set su misura e poi li affidiamo agli attori. Se tutto è già pronto, è solo recitazione. E se l’attore entra in un ambiente reale, reagisce in modo diverso. C’è una differenza tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo. Gli effetti digitali li usiamo solo quando ci sono limiti fisici, ma qui abbiamo voluto esplorare a fondo ogni strumento e imparare a usarlo al meglio.”
Aggiunge: “La Creatura è un personaggio molto biografico per me. Volevo che nascesse davvero ex novo. Molte rappresentazioni visive della Creatura la mostrano come una vittima di un incidente; io, invece, volevo che fosse qualcosa di bello — come una statua di alabastro. Non volevo i classici punti di sutura: il Dottore, nel mio film, crea una creatura perfetta, e abbiamo dato un senso profondo ai punti di giunzione nel corpo, visibili in varie sue parti. Ogni set, ogni elemento di design racconta qualcosa. All’inizio la Creatura è come un neonato, un embrione fragile, e crescendo cambia anche il guardaroba. Le esplosioni che subisce lasciano segni che lo rivelano poco a poco. La cosa che mi ossessionava da bambino era l’idea che i capelli avessero colori diversi perché provenivano da scalpi diversi. Ho pensato: ‘prendiamo metà da uno, un terzo da un altro…’. Tutto nasce da piccoli pezzi di ricambio, e questa logica dà coerenza alla storia e al suo contesto.”
“Non so davvero come faccio a immedesimarmi nei personaggi. Credo che il processo consista nel lasciarsi andare completamente al materiale che ci viene affidato, trovare un modo per innamorarsene, fino a farsi inglobare. Con Frankenstein è incredibile che siamo arrivati fin qui”, afferma Oscar Isaac, volto di Victor Frankenstein. “Due anni fa eravamo seduti a un tavolo, mangiando cucina cubana e parlando dei nostri padri. Ricordo di aver detto: ‘Vorrei poter essere Victor’. All’inizio mi sembrava solo un sogno, e poi Guillermo mi disse: ‘Sto creando questo ruolo per te. Basta che tu venga al banchetto e mangi’. È stato un momento di fusione totale. Mi sono legato a Guillermo e ci siamo immersi completamente nel lavoro. Lui mette il cuore in ogni cosa che fa, e ci ha spinto a fare lo stesso.”
“C’era un forte simbolismo nel modo in cui era costruito il set. Viverlo e attraversarlo ti nutriva emotivamente, alimentava la performance”, prosegue: “Fin dall’inizio abbiamo deciso di rappresentare Victor non come uno scienziato, ma come un artista. Un artista che si esprime attraverso i gesti, i movimenti. Victor viene da un luogo oscuro e doloroso. Abbiamo cercato un modo per rappresentare chi si sente outsider, chi non appartiene. Sono i ruoli che amo di più, perché anche io mi sono sempre sentito così: come se fossi dietro un vetro, a osservare la vita senza viverla davvero. Per me, questo film è molto personale. Chiede: come si vive con un cuore spezzato? Come si va avanti? Quando il cuore è infranto, c’è molta crudeltà, e questa crudeltà dà a Victor una profondità sensuale ed emotiva molto forte.”
“Guillermo mi ha contattato abbastanza tardi nel processo. Stavo finendo un altro film in Australia, quindi avevo solo tre o quattro settimane prima di arrivare sul set. Mi era stato presentato come qualcosa di monumentale, ma quando sono arrivato, erano già tutti al banchetto. Ho semplicemente preso posto. È stata un’accoglienza calorosa. Un sogno che si realizzava”, dice Jacob Elordi, interprete della Creatura.
Infine, Mia Goth che veste il ruolo di Elizabeth spiega: “Avevo studiato il romanzo a scuola, ma non ne ricordavo quasi nulla. Quando Guillermo mi ha invitata a far parte di questo film, l’ho riletto e mi ha profondamente colpita. Una delle cose che mi ha toccato di più è stata l’esperienza stessa di Mary Shelley: il dolore che si percepisce tra le pagine, quella sensazione di non appartenere a nessun luogo. Questi temi mi hanno parlato nel profondo. Frankenstein è davvero un testo fondamentale, e credo che questo film sia quello che tutti noi desideravamo che Guillermo realizzasse.”
Con Frankenstein, Guillermo del Toro non si limita a reinterpretare un classico della letteratura, ma costruisce un’opera profondamente intima, estetica e viscerale. Il film si presenta come un’esperienza collettiva e personale, un viaggio nelle fragilità dell’animo umano, nella bellezza del diverso e nella complessità dei legami affettivi. Tra riflessioni sulla paternità, creature che parlano di identità e attori immersi nel proprio ruolo, la creatura di Mary Shelley rinasce sul grande schermo con un’anima nuova — e sorprendentemente viva.
©Riproduzione Riservata
Emanuela Giuliani