Gangs of New York, dal quartiere alla nazione: Martin Scorsese racconta l’America che nasce in un’opera monumentale.
Martin Scorsese, nel 2002, con Gangs of New York firma uno dei suoi progetti più ambiziosi: un affresco storico potente e brutale che racconta le origini violente dell’America moderna. Un’opera che riflette sul caos fondativo, sulle contraddizioni della democrazia e sull’identità americana, costruita attraverso il conflitto, il sangue e gli ideali. Con una regia monumentale, scenografie mozzafiato e interpretazioni memorabili, Scorsese fonde intrattenimento e critica sociale in un film spettacolare e profondo.
Ambientato nella New York del 1863, nel quartiere dei Five Points — dilaniato da scontri tra bande, tensioni razziali e disuguaglianze sociali — il film segue la storia di Amsterdam Vallon (Leonardo DiCaprio) e della sua vendetta contro Bill “The Butcher” Cutting (Daniel Day-Lewis), carismatico e spietato leader dei nativisti.
La lunga strada verso Gangs of New York
La lavorazione di Gangs of New York è stata lunga e travagliata: Martin Scorsese ha inseguito il progetto per quasi trent’anni, da quando, negli anni ’70, scoprì il libro The Gangs of New York di Herbert Asbury, che ispirò la storia. Il film è stato girato interamente a Cinecittà, a Roma, dove è stato ricreato il quartiere dei Five Points in scala reale: un lavoro colossale curato dallo scenografo Dante Ferretti, che ha trasformato 30.000 metri quadrati di set in una fedele ricostruzione dell’America ottocentesca.
Daniel Day-Lewis, celebre per la sua preparazione maniacale, ha adottato l’accento e i modi di Bill “The Butcher” anche fuori dal set, indossando costumi d’epoca persino durante le pause e rifiutando di usare abiti moderni per non uscire dal personaggio. Durante le riprese si ammalò di polmonite, ma si rifiutò di assumere medicine moderne per rimanere coerente con l’epoca del film.
Nonostante alcune tensioni con la produzione – in particolare con Harvey Weinstein, che voleva tagliare il film per renderlo più commerciale – Scorsese riuscì a mantenere gran parte della sua visione artistica. Il risultato è un’opera che unisce epica storica, dramma personale e denuncia sociale, premiata con numerose candidature agli Oscar, tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista (Day-Lewis), anche se non vinse in nessuna categoria.
Alle origini del caos
Ambientato tra gli anni ’40 e ’60 dell’Ottocento, Gangs of New York ci porta nel cuore di una New York pre-unitaria, ancora ben lontana dalla metropoli che conosciamo oggi. In quegli anni, il quartiere dei Five Points — crocevia di immigrati, criminalità e miseria — rappresentava uno dei luoghi più degradati e violenti degli Stati Uniti. Era una zona in cui bande armate esercitavano un vero e proprio controllo territoriale e la polizia, spesso corrotta o impotente, faticava a mantenere l’ordine.
Uno degli eventi storici centrali del film sono le Draft Riots del 1863, ovvero le rivolte scoppiate dopo l’introduzione della leva obbligatoria durante la Guerra di Secessione, con i cittadini più poveri, in gran parte immigrati irlandesi, che si ribellarono al fatto che i più ricchi potessero pagare per evitare il servizio militare. Le proteste si trasformarono rapidamente in violenti scontri di classe e razziali, culminando in saccheggi, incendi e linciaggi, soprattutto contro la comunità afroamericana.
A fare da sfondo a queste vicende vi è anche lo scontro ideologico tra i nativisti (come il personaggio di Bill the Butcher), che volevano difendere l’identità “americana” dai nuovi arrivati, e gli immigrati, soprattutto irlandesi cattolici, in fuga da fame e povertà. Un conflitto specchio delle tensioni che ancora oggi attraversano il tessuto sociale degli Stati Uniti: razzismo, xenofobia e la difficoltà di integrare nuove identità in una nazione fondata – almeno in teoria – sull’accoglienza.
Scorsese, da sempre affascinato dalla storia nascosta di New York, utilizza il film per raccontare non solo la violenza di strada, ma anche la nascita di una nuova identità americana: caotica, contraddittoria, ma in costante evoluzione.
Tra sangue e appartenenza
Con Gangs of New York, Martin Scorsese non si limita a mettere in scena una storia di vendetta o di rivalità tra bande: il film si configura come una profonda riflessione sull’identità americana e sul significato stesso di “civiltà”. Al centro della narrazione si intrecciano temi universali, che travalicano l’ambientazione storica per toccare corde ancora oggi attuali.
Il film suggerisce che la nascita degli Stati Uniti — e in particolare di New York — non sia avvenuta attraverso un processo lineare e democratico, bensì nel caos, nel sangue e sotto la legge del più forte. La violenza, più che un’eccezione, appare come una componente strutturale della società: un linguaggio attraverso cui si conquista e si afferma il potere.
Lo scontro tra nativisti e immigrati irlandesi diventa la rappresentazione di un conflitto identitario profondo, che ha segnato — e continua a segnare — la storia americana. Da un lato, la paura del diverso, dell’invasione culturale e sociale; dall’altro, la lotta degli ultimi per l’integrazione e il riconoscimento. Il concetto stesso di “americano” emerge così come il prodotto di un incontro (e spesso di uno scontro) tra culture, etnie e visioni del mondo differenti.
Il percorso di Amsterdam Vallon, mosso inizialmente dal desiderio di vendicare la morte del padre, si trasforma progressivamente in una considerazione sulla giustizia, sull’eredità morale e sul senso di appartenenza. La vendetta personale si intreccia con un processo di maturazione interiore e con una crescente consapevolezza storica e politica.
Il film mette inoltre in luce la natura ambigua e corrotta del potere politico, che nasce e si alimenta attraverso compromessi, manipolazioni e alleanze con il crimine organizzato. In questo contesto, bande, boss e politici si muovono in un equilibrio precario, dove la linea tra legalità e criminalità è del tutto sfumata, che Scorsese riprenderà e approfondirà anche in opere successive come The Departed o The Irishman.
Nel finale, con la dissoluzione delle vecchie bande e l’inizio della trasformazione urbana di New York, emerge un interrogativo centrale: è davvero possibile costruire un ordine stabile a partire dal disordine? La risposta che Scorsese sembra offrire è volutamente ambigua, lasciando allo spettatore il compito di riflettere sulla ciclicità della storia e sull’ambivalenza del progresso.
Le tematiche di Gangs of New York si inseriscono pienamente nel percorso autoriale di Scorsese. Fin dagli esordi, il regista ha raccontato mondi marginali e violenti, attraversati da conflitti morali e da personaggi divisi tra un codice d’onore personale e una realtà corrotta. Come in Taxi Driver, Mean Streets o Goodfellas, anche qui il protagonista si muove in un contesto in cui sopravvivenza e coscienza si fronteggiano senza possibilità di riconciliazione.
Il film affronta questioni ricorrenti nella poetica scorsesiana: la violenza come linguaggio sociale, la tensione tra spiritualità e peccato, il peso del passato — individuale e collettivo — nel determinare le scelte e il destino dei personaggi. Ma in Gangs of New York, il regista compie un salto di scala: non racconta più solo la parabola di un uomo o di un quartiere, bensì la genesi turbolenta di un’intera nazione.
Quando la violenza fa nascere una nazione
Gangs of New York rappresenta un punto di svolta nella filmografia di Martin Scorsese: un’opera di transizione e al tempo stesso di sintesi, un ponte tra l’intimismo dei suoi primi film — centrati su personaggi tormentati e microcosmi urbani — e l’ambizione epica di raccontare la Storia con la “S” maiuscola. In questo film, Scorsese espande il suo sguardo senza rinunciare alla sua cifra stilistica e morale: la tensione tra individuale e collettivo, tra peccato e redenzione, tra caos e ordine si riflette su scala nazionale.
L’America che emerge da Gangs of New York non è il paese delle opportunità, bensì una nazione in gestazione, lacerata da conflitti sociali e identitari, costruita sul sangue, sull’esclusione e sul compromesso. Il film rifiuta ogni idealizzazione, scegliendo di raccontare la nascita degli Stati Uniti come una lotta brutale per il potere, in cui i valori democratici sono ancora lontani e spesso traditi dalla realtà dei fatti.
Ma proprio in questa rappresentazione aspra e spietata risiede la forza del film. Scorsese non offre risposte semplici, ma solleva domande scomode sulla legittimità della violenza, sull’origine delle istituzioni e sulla costruzione dell’identità nazionale. Attraverso la parabola di Amsterdam Vallon e il conflitto con Bill the Butcher, Gangs of New York racconta la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, più moderna ma non necessariamente più giusta.
È un’opera che anticipa molte delle riflessioni sul potere, sull’appartenenza e sulla memoria collettiva che il regista continuerà ad affrontare negli anni successivi, e se il film non si chiude con una riconciliazione, ma con una sepoltura — quella dei protagonisti, e simbolicamente di un’intera generazione — è perché Gangs of New York non è un atto celebrativo, ma un atto di testimonianza: feroce, imperfetto, necessario.
In definitiva, Scorsese ci consegna non solo un film storico, ma un grande racconto morale sulla nascita di una nazione, che ci invita a guardare il passato non con nostalgia, ma con lucidità. Un’opera che, nel suo realismo violento e nella sua potenza visiva, continua a risuonare come un monito sulle radici profonde — e spesso dimenticate — della società americana.
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Emanuela Giuliani