Hamnet di Chloé Zhao racconta il dolore di una madre, trasformando la perdita in arte, memoria e resilienza senza tempo.
Dopo aver raccontato l’America invisibile in Nomadland e indagato la solitudine nell’anima del West in The Rider, Chloé Zhao torna a emozionare con Hamnet, un’opera intima e dal respiro universale, ispirata all’omonimo romanzo di Maggie O’Farrell, che ha collaborato alla sceneggiatura assieme alla regista.
Intrecciando paesaggio e sofferenza in una narrazione visiva profondamente umana, il film porta sullo schermo la vicenda della famiglia Shakespeare, e il devastante vuoto lasciato dalla morte del giovane Hamnet, in una riflessione toccante sull’arte, la perdita e la memoria che oltrepassa i confini del tempo, dando voce a un dolore personale che si fa collettivo, mostrando come l’amore sopravviva alla morte e il ricordo dia senso alla perdita attraverso l’espressione artistica.
Acclamato alla première mondiale del Telluride Film Festival e ora presentato alla 20ª Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public, Hamnet arriverà nei cinema italiani il 5 febbraio 2026, distribuito da Universal Pictures.
Un racconto di perdita, amore e trasformazione
Può il dolore generare bellezza? È questa la domanda che attraversa ogni fotogramma di Hamnet, ambientato in un’Inghilterra elisabettiana malinconica, che parla di una famiglia spezzata dal dolore, della maternità come impulso primordiale, della potenza creativa, e del legame estremo e profondo tra fratello e sorella, ponendo al centro della scena Agnes, moglie di William Shakespeare e madre di Hamnet, interpretata con rara intensità da Jessie Buckley.
Agnes, è una donna radicata nella terra e nei ritmi della natura, la sua è una maternità vissuta nel corpo e nello spirito, fatta di ascolto, intuizione e contatto, che porta il peso della perdita non con le parole, ma con gesti, sguardi e silenzi carichi di strazio e senso di colpa. È il dolore insostenibile di una madre che non è riuscita a salvare il proprio bambino e si interroga se ha ignorato un segnale, se l’amore è stato sufficiente lacerandole l’anima e lasciandola sospesa nel dubbio più crudele: “Forse non ho fatto abbastanza.”
Quello di Agnes è il ritratto di una resistenza tacita e potente con l’essere madre, che da semplice legame biologico, diventa una presenza viva unendo passato e futuro con il ricordo e l’amore non detto. Una resilienza che non nega il dolore, ma lo abita imparando a conviverci.
Allo stesso modo, il film racconta con delicatezza il legame tra Hamnet e la sorella gemella, Judith: una connessione profonda, ancestrale, fatta di prossimità assoluta ed esistenza condivisa fin dalla nascita. Quando Judith si ammala, Hamnet — dal volto del giovanissimo Jacobi Jupe, in grado di lasciare il segno con pochi emozionanti momenti — desidera prenderne il posto e offre la propria vita con il pensiero e con l’anima, in un gesto istintivo emblema di un amore incondizionato mostrato senza retorica e purezza, che suggella il senso viscerale del sacrificio e della fratellanza.
Il William Shakespeare di Paul Mescal invece, è lontano dall’immagine del genio teatrale sicuro di sé a cui siamo abituati: il suo è un uomo prostrato, chiuso in sè, e che dà sfogo al proprio abisso solo scrivendo. La sua fragilità lo rende umano, vicino e comprensibile, ed è con lui che il film introduce uno dei suoi temi centrali: il dolore come origine della creazione artistica.
Al centro di Hamnet c’è infatti un’idea forte: il dolore può diventare arte, e il film suggerisce che la scomparsa del figlio abbia influenzato la scrittura di Amleto e forse l’intera opera del Bardo non come semplice nota biografica, bensì come una riflessione sul potere dell’arte di mantenere viva una presenza anche quando il corpo non c’è più, resistendo al tempo e alla morte, mostrando inoltre la forza muta del riuscire a lasciar andare. Hamnet ci ricorda che accettare la perdita non significa dimenticare o smettere di amare, al contrario, è un atto di profonda maturità poiché lasciare andare vuol dire riconoscere che chi non c’è più continua a vivere dentro sotto forma di cuore, così che il tempo non possa cancellarlo anche quando tutto il resto svanisce.
Zhao racconta tutto questo con un linguaggio visivo che intreccia paesaggi naturali a primi piani vibranti, da cui il dolore emerge senza forzature, grazie a un ritmo lento e necessario. La sceneggiatura è asciutta ed essenziale: scene domestiche, dialoghi misurati, sguardi che parlano più delle parole, mentre la fotografia, avvolgente, immerge ogni scena in una luce morbida, e la colonna sonora accompagna con discrezione, sottolineando le emozioni senza manipolarle.
Il tempo così si ferma, e lo spazio diventa un limbo dove il dolore si vive pienamente prendendosi il suo tempo, evolvendo e aprendo domande universali: cosa resta di noi quando perdiamo chi amiamo? Come si continua a vivere? E come si può non dimenticare?
La bellezza del dolore trasformato
Con Hamnet, Chloé Zhao firma uno dei film più potenti e significativi della stagione, scavando nell’assenza e nella memoria con uno sguardo profondo e compassionevole, e rivelando come anche il dolore più devastante possa trasformarsi in qualcosa di vivo.
Non ci sono consolazioni facili né sollievi immediati: solo la fatica del vivere, il tempo che scorre inesorabile, il bisogno umano di dare un senso al vuoto lasciato da chi non c’è più, con un ritmo che dà spazio alle emozioni, accoglie il dolore, e lascia emergere la bellezza nel silenzio. Cosa resta davvero di chi abbiamo amato? Forse proprio questo: l’arte, la memoria, e una forma d’amore che continua a esistere, silenziosa e presente, oltre ogni fine.
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Emanuela Giuliani
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