Harvest, la recensione tra riti, rovine e rivoluzione del film diretto da Athīna Rachīl Tsangārī con Caleb Landry Jones.
Dopo l’ipnotica performance in Dogman di Luc Besson, applaudita lo scorso anno all’80esima Mostra del Cinema di Venezia, Caleb Landry Jones torna al Lido, confermando il suo sodalizio con il cinema d’autore e con un festival che ne ha saputo valorizzare la complessità attoriale e la straordinaria capacità di incarnare personaggi fuori asse, spesso borderline ma sempre profondamente umani.
Abilità, che l’attore texano torna a mostrare, e confermare, in questa 81esima edizione del Lido che lo vede protagonista di Harvest, il film presentato in anteprima mondiale e diretto da Athīna Rachīl Tsangārī, figura di punta del cinema d’avanguardia greco e voce tra le più originali del panorama contemporaneo europeo.
Tsangārī, classe 1966, è una regista e produttrice che ha contribuito in modo decisivo alla cosiddetta Greek Weird Wave, movimento estetico e narrativo emerso negli anni Duemila e associato a opere spiazzanti, allegoriche e profondamente stranianti. Nota al grande pubblico per Attenberg (2010) e Chevalier (2015), film pluripremiati e selezionati in festival internazionali come Cannes, Berlino e Locarno, Tsangārī ha sempre esplorato territori liminali dell’identità, della ritualità sociale e del potere simbolico. La sua estetica si nutre di ambiguità, gesti sospesi, corpi dissonanti e ambienti rarefatti, in cui il quotidiano viene trasfigurato in qualcosa di arcaico e perturbante.
Con Harvest, Tsangārī compie un ulteriore passo nella sua indagine sul rapporto tra individuo e struttura collettiva, questa volta spostando lo sguardo in una dimensione storica e mitopoietica. Liberamente tratto dal romanzo Il raccolto di Jim Crace (2013), il film ci conduce in un Medioevo immaginario, cupo e selvaggio, evocato con un rigore visivo che si rifà a certa pittura fiamminga, ma anche al cinema più meditativo di Béla Tarr e Andrei Tarkovskij.
Girato tra le lande ventose di Oban, in Scozia, Harvest si immerge in un tempo arcaico, dove superstizione, natura e potere si intrecciano in un equilibrio tanto precario quanto carico di tensioni latenti. Ed è questo scenario che il fattore Walter Thirs, interpretato con vibrante interiorità da Jones, assiste al disgregarsi del mondo a lui noto con l’arrivo del cugino Edmund, emissario di un nuovo ordine agricolo e ideologico, e la cui presenza, apparentemente salvifica, si rivela essere un catalizzatore di conflitti, fratture e trasformazioni irreversibili.
Il film, tra visioni oniriche, riti pagani, danze collettive e allucinazioni provocate da funghi psicotropi, si configura come un’esperienza immersiva e profondamente simbolica. Il villaggio, microcosmo antropologico, diventa allegoria di una civiltà sull’orlo del collasso, stretta tra tradizione e innovazione, appartenenza e conquista.
Tsangārī firma quindi un’opera visivamente sontuosa e tematicamente ambiziosa, che riflette sull’urgenza spirituale del nostro tempo. La natura, in Harvest di fatto non è una semplice cornice ma entità viva, sacra e indomabile che sfugge alla razionalizzazione e al dominio, con la regista costruisce una potente allegoria della modernità che avanza come forza di espropriazione, mettendo in discussione la legittimità del cosiddetto progresso e la violenza sistemica che ne accompagna ogni passo.
Tuttavia, l’ambizione formale e concettuale del film porta con se anche dei rischi, dal momento che il ritmo, volutamente rallentato e meditativo, richiede uno spettatore disposto a perdersi nella durata, nei dettagli e nei silenzi, e la sceneggiatura, co-scritta con Joslyn Barnes, pur distinguendosi per la ricchezza di temi e simboli, scivola in una verbosità eccessiva che spezza e affatica il coinvolgimento emotivo.
Queste imperfezioni, tutt’altro che marginali, finiscono per penalizzare in modo significativo Harvest, un’opera che si propone come esperienza estetica che invita lo spettatore a decifrare segni, sostare nell’incertezza e confrontarsi con l’ambiguità profonda delle trasformazioni storiche e culturali. Un film che si inscrive pienamente nel solco del lirismo inquieto e visionario di Athina Rachel Tsangārī, il cui cinema rifugge da ogni forma di consolazione narrativa, rifiutando risposte semplici e certezze rassicuranti e aprendo invece spazi di riflessione, visione e disorientamento, dove l’atto dello sguardo diventa pratica critica.
In tal senso, Harvest si configura come un gesto artistico coerente con la poetica della sua autrice, che da anni contribuisce con originalità e rigore al rinnovamento del linguaggio cinematografico europeo. Tuttavia, nonostante l’ambizione concettuale e la forza di alcune intuizioni formali, l’opera riesce a vincere la propria sfida solo parzialmente, lasciando il senso di un’occasione solo in parte colta.
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Emanuela Giuliani
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