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High Life – Recensione: il valore della vita secondo Claire Denis

High Life – Recensione: il valore della vita secondo Claire Denis

C’era grande curiosità attorno ad High Life” (2018), di Claire Denis (“Chocolat”, “Beau Travail”, “35 Rhums”) al primo film in lingua inglese, la cineasta francese irrompe prepotentemente nel genere fantascientifico, ricavandone un’insolita e suggestiva lettura che è punto d’incontro tra sci-fi, prison-movie nello spazio siderale e space-opera, connotata da una narrazione a-lineare.

Con la collaborazione del fisico Aurélien Barrau al fine di delineare una componente fantascientifica convincente e accattivante; “High Life” è realizzato con una cura certosina, dal comparto scenografico sino all’elemento linguistico. La scelta dell’inglese come lingua parlata, non è casuale. Sin dalla primissima bozza di sceneggiatura, infatti, “High Life” è risultato anglofono per via del contesto scenico. A detta della Denis infatti: “la storia è ambientata nello spazio, e non so perché, ma per me le persone parlano inglese – o russo, o cinese – ma sicuramente non francese.”

Presentato al TIFF 2018 e distribuito in Italia da Movies Inspired a partire dal 6 agosto 2020, “High Life” ha incantato i critici di tutto il mondo, perfino quelli nostrani. È stato infatti designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI con la seguente motivazione: “Una prigione orbitante nello spazio. Una microsocietà divisa per mansioni e generi. Claire Denis racconta la fine dell’umanità all’alba della mutazione definitiva. Autrice che ama reinventare costantemente il suo cinema, muovendosi con suprema disinvoltura nei generi, firma un apologo fantascientifico nerissimo e sensuale, erotico e politico. High Life è il cinema contemporaneo che sfida il presente, le convenzioni e osa lanciarsi verso il futuro.

Nel cast di “High Life” troviamo: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Mia Goth, André Benjamin, Ewan Mitchell, Gloria Obianyo, Lars Eidinger, Agata Buzek, Scarlett Lindsey e Jessie Ross.

High Life: sinossi

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Una nave spaziale è alla deriva oltre il sistema solare. Monte (Robert Pattinson) e la figlia, Willow (Scarlett Lindsey/Jessie Ross), vivono insieme a bordo del veicolo in completo isolamento dopo essere sopravvissuti a una spedizione di detenuti condannati all’ergastolo verso un buco nero.

Immersi nel vuoto affrontano insieme il loro avvenire cercando di sopravvivere in una dimensione dove il tempo e lo spazio cessano di esistere.

High Life: Un racconto che vive d’immagini

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Il pianto di una bambina, un padre e una figlia, e lo spazio aperto. Già dalla sequenza in apertura di racconto di “High Life”, risulta evidente la sopracitata atipicità d’intenti e di tipo strutturale. Parte in medias res per poi svilupparsi in uno stream of consciousness Joyciano a-temporale, tra presente, passato, futuro e ancora passato – reso possibile da transizioni frutto di un montaggio netto e improvviso. Un linguaggio filmico elaborato, con cui portare in scena una narrazione che vive di immagini; di tele comunicazioni ad anni-luce di distanza, e in quelle narrative dei fantasmi del passato frutto di digressioni temporali.

Di campi lunghi di viali inalberati, di dettagli di cani morti e fughe in treno, di particolari di cicatrici da cucire e ricucite, di primi passi di bimba nel silenzio di una stazione spaziale e di onanismo nel buio di una cabina a tenuta stagna.

Elementi con cui la Denis dispiega un elaborato ed enigmatico intreccio scenico, in un viaggio di sola andata verso l’oblio – che rievoca e non poco l’espediente alla base di “Interstellar” (2014) di Christopher Nolan – figlio di un contrasto scenico che è anche incoerenza narrativa. L’emergere del sottotesto alla base del racconto infatti, va a caratterizzare l’accezione esistenziale di High Life in un’epopea fantascientifica che tratta del valore della vita e della salvezza dell’umanità, attraverso, però, un espediente che la annulla del tutto.

La destrutturazione dell’atto sessuale

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Il ricreare la vita “in vitro” ai confini dell’Universo conosciuto, in un prison-movie esistenziale da cui emerge una chiara ed evidente accezione sessuale. È il sesso, il desiderio dello stesso e le dirette conseguenze riproduttive, il motore di “High Life”. Nel trattarne però, la Denis procede verso una progressiva destrutturazione dell’atto fisico, tra donazioni di seme dei membri della specie umana maschile a bordo della nave spaziale e la crudezza di un’intera sequenza con cui la Dottoressa Dibs della Binoche si procura piacere. A bordo di una macchina sessuale la Dibs si spoglia, riveste di lattice il manubrio, si contorce, urla e ansima nel buio della cabina.

Riconducendo così il sesso, per ragioni scientifiche, a mere e vuote azioni individuali, private del tutto della componente affettiva. Non c’è amore inHigh Life” se non in quello di un padre per la figlia. Ciò non toglie comunque, la ricerca, da parte degli agenti scenici, di un soddisfacimento sessuale vero e autentico. Azioni però, che non hanno alla base sentimenti benevoli e romantici, bensì di violenza, ossessività ed egoismo, di prevaricazioni “di potere” o di tipo biologico.

I personaggi di “High Life”, rottami d’epopee letterarie

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Al centro del racconto di “High Life”, il Monte di Pattinson – per cui, nella genesi creativa, la Denis aveva pensato inizialmente a Vincent Gallo come ispirazione e Philip Seymour Hoffman come effettivo interprete. Esattamente come la narrazione di cui è protagonista, Monte vive una e più vite, ora nel ruolo narrativo di genitore, ora in quello di criminale condannato all’oblio, ora in quello di sopravvissuto. In una – a detta della stessa Denis – rilettura in chiave fantascientifica dell’Arturiano Parsifal. Un uomo dal cuore puro, nella castità come scelta per preservare i fluidi e nel voler difendere i più deboli.

Connotazioni volte a dare colore al personaggio e alla narrazione, rese possibili da una regia che sa gestire il ritmo e il respiro scenico di un racconto elaborato che vive di contrasti narrativi e scenici. Nei particolari e dettagli con cui raccontare della tenerezza di un padre nel prendersi cura di una figlia, ora in piani medi e primi piani con cui mostrare le sequenze fisiche, ora violente, ora sessuali.

I personaggi in scena non sono che “rottami a cui qualcuno è venuto in mente di riciclarci”, gente condannata all’ergastolo, al braccio della morte, stupratori, rifiuti umani dimenticati da tutti. Vite al pari di quelle dei cani randagi, di criminali privati della dignità e del proprio tempo, costretti a vagare nello spazio aperto per il valore della scienza.

Un’opera imprescindibile

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La atipicità narrativa di High Life, il suo essere stream of consciousness a-temporale, si ricongiunge a doppio filo con la tematica del tempo, del valore dello stesso, in una vita privata del tempo con i propri cari per un motivo altro. Una tematica, paradossalmente, ampiamente inflazionata nel cinema di genere, ma la cui rilettura compiuta da Claire Denis  è l’essenza stessa dell’imprescindibile valore diHigh Life”.

Sono tanti i punti in comune con il sopracitato Interstellar a livello tematico. A partire dalla concezione stessa del tempo, nell’espediente nel viaggio siderale per un bene superiore e nel valore narrativo del buco nero. Se però Nolan non ha avuto il coraggio di spingersi fino in fondo, scegliendo una soluzione facilona con cui rattoppare l’intreccio e puntare tutto sull’amore come motore dell’Universo, la Denis si ferma un attimo prima.

La cineasta francese esclude soluzioni facili come “il fantasma dell’armadio” e punta fino in fondo sull’amore paterno e il senso di protezione ai confini dell’Universo conosciuto. Corre il rischio, lo affronta di petto ma a guadagnarci è la narrazione in termini di solidità e intensità scenica. Il finale aperto, in tal senso, aggiunge una nota poetica, in un’incertezza d’intenti sul futuro dei protagonisti lasciati così al proprio destino.

Una scelta dalla portata immaginifica infinita, esattamente come il racconto di cui rappresenta la conclusione, con cui discostarsi dagli Interstellar della storia del cinema, per muoversi nello stesso terreno filmico di “Solaris” (1972) di Andrej Tarkovskij e delle forti riletture della fantascienza del cinema d’autore.

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Francesco Fabio Parrino

Il Voto della Redazione:

8


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