HIM, la recensione del film diretto da Justin Tipping e prodotto da Jordan Peele: quando la fama diventa ossessione.
Quanto sei disposto a sacrificare per diventare una leggenda? In un mondo dove il successo si misura in numeri e l’identità si dissolve dietro l’immagine perfetta, HIM di Justin Tipping si immerge nell’oscurità della fama ossessiva, mescolando dramma, horror, critica sociale e smascherando il prezzo reale della grandezza, dominata dal controllo mentale e dal culto della performance.
Tratto da una sceneggiatura inclusa nella prestigiosa Black List, firmata da Zack Akers & Skip Bronkie (Limetown) insieme allo stesso Tipping, e prodotto dalla Monkeypaw Productions e dal Premio Oscar® Jordan Peele, artefice di cult come Scappa – Get Out, Noi e Nope, HIM arriverà nelle sale italiane il 2 ottobre, distribuito da Universal Pictures. Nel cast, Marlon Wayans in una delle sue interpretazioni più cupe e drammatiche, e il promettente Tyriq Withers nel ruolo di Cameron Cade, giovane promessa del football americano, affiancati da Julia Fox.
L’ossessione per la grandezza nella società dell’immagine
HIM non è un semplice film sul football, ma una dissezione brutale delle dinamiche del potere e delle fragilità psicologiche che si nascondono dietro l’ossessione per il successo. Cameron Cade è la classica stella nascente, giovane e promettente, ma bastano pochi secondi — un’aggressione improvvisa, un trauma cranico — per spazzare via anni di sacrifici e sogni. A dargli corpo e voce in modo credibile è Tyriq Withers, che restituisce fragilità al personaggio mentre si confronta con un mondo che lo vuole forte, ma finisce per spezzarlo, immergendolo in un ambiente che manipola e consuma.
Ed è proprio in questo momento di rottura, vulnerabilità e disperazione che si insinua la promessa di redenzione incarnata da Isaiah White, interpretato da Marlon Wayans. Ex leggenda della NFL, tanto affascinante quanto pericoloso, Isaiah è il simbolo vivente di un sistema che glorifica la grandezza ma divora l’individuo, costruito sul mito della forza, dell’eccellenza assoluta e della dominazione.
Quando Isaiah invita Cameron nel suo esclusivo compound di allenamento, ciò che inizialmente appare come un ritiro rigenerativo si rivela presto un meccanismo perverso di manipolazione. Il compound diventa infatti una casa degli specchi, in cui ogni stanza riflette l’illusione del controllo, ma anche le insicurezze di chi cerca disperatamente di aderire a un ideale disumano. Un senso di claustrofobia e di perdita d’identità è amplificato dalle inquadrature strette e distorte della regia di Justin Tipping. Le luci fredde, alternate a quelle calde, e un sound design disturbante contribuiscono a creare un’atmosfera allucinata, in cui il confine tra realtà e delirio si assottiglia sempre di più.
HIM, però, va oltre spingendosi in una riflessione tagliente sull’ideologia della performance che avvolge la società ipercompetitiva contemporanea: un mondo in cui “valere” significa “funzionare”, dove ogni debolezza è un difetto da correggere e ogni fallimento una colpa personale. Lo sport diventa così la metafora perfetta di una società in cui i giovani crescono con l’idea di dover superare sé stessi per essere degni di attenzione, rispetto e amore.
Una spirale pericolosa, alimentata dai media, dalle istituzioni e dai social network, e qui rappresentata dalla figura di Elsie, interpretata da Julia Fox: un’influencer ambigua emblema della finzione, del potere narcotico dell’immagine e del “brand personale”.
Questa scelta narrativa, pur rafforzando il tema centrale del controllo e della manipolazione, mostra però un’occasione mancata: Elsie avrebbe potuto essere un personaggio femminile stratificato e complesso, capace di offrire una prospettiva più profonda in un contesto dominato da dinamiche maschili oppressive, invece, rimane uno strumento funzionale alla trama, senza mai entrare realmente nei suoi sentimenti o nelle sue motivazioni.
Il film perde così l’opportunità di sviluppare appieno una figura che, per potenza simbolica e narratività, avrebbe potuto aggiungere ulteriore spessore alla storia, al suo messaggio, con l’atmosfera di suspense che, a volte, sembra più utile a coprire certe debolezze sfiorando solamente la domanda cruciale: qual è il prezzo che siamo disposti a pagare per diventare leggenda? E vale davvero la pena perderci sé stessi?
Tra psicologia, sport e orrore mentale
HIM è, senza dubbio, un film ambizioso con alla base un’idea interessante capace di scavare nelle viscere di un sistema crudele, dove la fama è una prigione e la ricerca della perfezione un veleno lento. Nonostante alcune imperfezioni nella sceneggiatura e una gestione non sempre equilibrata dei personaggi, il film riesce comunque a colpire nel segno evocando inquietudine e sollevando riflessioni importanti sul prezzo della celebrità e sul rischio dell’autodistruzione dietro il mito del successo.
Un racconto d’impatto, e anche se la tensione, pur funzionando a livello visivo e atmosferico, a volte sembra nascondere le fragilità della scrittura, invita lo spettatore a riflettere su quanto si è disposti a perdere di sé stessi per inseguire una gloria che, forse, è solo una trappola ben confezionata.
Nel suo mix di thriller psicologico, dramma sportivo e critica sociale, HIM offre spunti accattivanti lasciando spazio a un senso di incompiutezza che sembra quasi voler ricordare allo spettatore che la vera ossessione, quella che logora dall’interno, altro non è che il bisogno di trovare risposte semplici in un mondo sempre più complesso.
Perché essere un GOAT — il Greatest Of All Time — non significa solo dominare lo sport o la scena pubblica, ma soprattutto mantenere intatta la propria umanità, e in questo, HIM ci mette davanti a una verità scomoda: il vero successo non può esistere senza il coraggio di restare fedeli a sé stessi, dentro e fuori dal campo.
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Emanuela Giuliani
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