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House of Guinness, la recensione: un’eredità alcolica e politica

House of Guinness, la recensione della nuova serie di Steven Knight disponibile su Netflix dal 25 settembre.

Con House of Guinness, disponibile su Netflix dal 25 settembre, Steven Knight — mente dietro l’acclamato Peaky Blinders — torna a intrecciare storia e fiction, offrendo agli spettatori un nuovo affresco drammatico ambientato nell’Irlanda del XIX secolo. Questa volta, però, il cuore del racconto è la dinastia Guinness, celebre per l’omonima birra, e il peso del potere che si tramanda di padre in figlio.

Siamo nella seconda metà dell’Ottocento e Dublino, ancora sotto il dominio della corona britannica, esplode in tensioni e proteste. Il funerale di Sir Benjamin Guinness diventa il simbolo del malcontento popolare, mentre i quattro figli — Arthur (Anthony Boyle), Edward (Louis Partridge), Anne (Emily Fairn) e Ben (Fionn O’Shea) — si ritrovano a dover gestire un’eredità imponente, fatta non solo di fabbriche e fortune, ma anche di segreti, ambizioni e rancori.

Come se non bastasse, il testamento del padre impone una condizione singolare: solo due dei quattro figli, Arthur ed Edward, dovranno amministrare congiuntamente l’azienda, pena la perdita dell’intero patrimonio. Da qui nasce un conflitto fraterno che si intreccia con le dinamiche della ribellione irlandese e con i giochi di potere interni a un’azienda sull’orlo del cambiamento.

Potere, famiglia e rivoluzione

House of Guinness, oltre a essere la storia di una famiglia potente, è anche il ritratto vivido di un’epoca in bilico. Sono gli anni successivi alla Grande Carestia (1845–1852), una ferita ancora aperta nella memoria collettiva. Uno scenario esasperato, in cui le famiglie anglo-irlandesi come i Guinness sono, da un lato, innovatori e filantropi, dall’altro, incarnazioni di un sistema classista e coloniale. E mentre i fratelli Guinness lottano per il controllo dell’azienda, fuori dai cancelli della fabbrica si agita un’Irlanda pronta alla rivolta, i Feniani — movimento repubblicano clandestino — seminano ribellione e propaganda, spinti dalla fame, dalla rabbia, dalla speranza e da un’urgenza identitaria più che politica.

Steven Knight, muovendosi con abilità nella sfera privata e collettiva, mostra come i conflitti familiari siano uno specchio in miniatura delle grandi battaglie storiche. Ogni scena, infatti, riflette lo scontro tra tradizione e cambiamento, privilegio e rivendicazione, e Dublino stessa è un teatro politico e psicologico, dove ogni strada, birreria e palazzo borghese è una polveriera pronta a esplodere, con i fratelli — Arthur, Edward, Anne e Ben — che rappresentano quattro risposte diverse al potere: c’è chi si piega, chi fugge, chi lotta per riscrivere le regole e chi si perde, dal momento che il cognome Guinness è un’eredità che promette ricchezza, ma pretende in cambio l’anima.

Una serie stratificata, tra stile e sostanza

Raccontando la difficoltà di sottrarsi a un destino scritto da altri, House of Guinness è al tempo stesso dramma familiare, thriller politico e storia di formazione e deformazione, con la Guinness — densa e amara — a fare da metafora del potere, dei suoi creatori e dei suoi oppositori, e una colonna sonora che contribuisce a definirne l’identità. La combinazione audace di brani classici e sonorità moderne — tra cui spiccano i Fontaines D.C. — crea un’atmosfera sospesa, in cui il passato dialoga con il presente, come già sperimentato da Knight in Peaky Blinders.

La regia, firmata da Tom Shankland e Mounia Akl, costruisce un mondo ricco e dettagliato, mentre la fotografia, cupa e contrastata, riflette i conflitti interiori dei personaggi. Dublino non è un semplice sfondo, ma un personaggio vivo e pulsante: sporca, affascinante, in costante tensione tra progresso e tradizione. Il montaggio, ben calibrato nei primi episodi, fatica invece a mantenere la tensione nella seconda metà della stagione, con alcune dinamiche familiari che, ripetendosi, appesantiscono la narrazione.

Tra i punti di forza ci sono le interpretazioni. Anthony Boyle dipinge un Arthur complesso, diviso tra arroganza e vulnerabilità; Louis Partridge dona a Edward una profondità emotiva che va oltre il ruolo del “fratello minore”. Ma è Emily Fairn, nei panni di Anne, forse la vera sorpresa: il suo personaggio, pur marginalizzato dalla società, riesce a imporsi come coscienza critica della famiglia. Notevole anche James Norton nel ruolo di Sean Rafferty, uomo ponte tra i ricchi e il popolo, che dona equilibrio e gravitas alla narrazione.

Un sorso amaro, ma intenso

House of Guinness, senza alcun dubbio, ha uno stile riconoscibile e ambizioso, con un tono sommesso, quasi teatrale, che predilige l’introspezione e l’atmosfera, dando vita a un mondo che punta sull’umanità dei personaggi e sulle loro inquietudini di fondo.

La sua personalità è chiara, anche se non così forte o magnetica da imporsi con la stessa potenza di altre produzioni dello stesso autore, racchiudendo però il proprio fascino nella scelta di restare in bilico tra epopea e dramma familiare, tra il fermento della storia e la lentezza di alcuni passaggi. Certo, non tutto è perfetto con delle sottotrame irrisolte e altre che si trascinano senza trovare una vera evoluzione, ma ciò che funziona riesce a compensare le imperfezioni: dalla ricostruzione storica, curata e vibrante, alla lotta tra eredità e autodeterminazione.

Un dramma storico, quindi, solido e raffinato, capace di raccontare con autenticità le contraddizioni di un’epoca e la fragilità dei legami familiari sotto il peso del potere. Non è un’opera che brucia, ma che sobbolle lentamente, lasciando affiorare riflessioni profonde su identità, appartenenza e destino. Un bicchiere pieno, non troppo frizzante, denso e dal retrogusto persistente. Da gustare senza fretta.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

7


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