Dieci curiosità su Il Discorso del Re, il film uscito nel 2010 diretto da Tom Hooper e con protagonista Colin Firth.
Interpretato da un cast straordinario composto da Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter e Guy Pearce, Il Discorso del Re (The King’s Speech) è un film del 2010 diretto da Tom Hooper, tratto da una toccante storia vera che ha segnato la storia del Regno Unito.
La pellicola segue il tormentato percorso personale del futuro re Giorgio VI, un uomo riservato e insicuro, che si trova improvvisamente chiamato a guidare una nazione sull’orlo della guerra, mentre lotta contro una grave forma di balbuzie che mina la sua capacità di comunicare pubblicamente. Fondamentale nel suo cammino verso la fiducia in sé stesso è l’incontro con Lionel Logue, un logopedista australiano dai metodi anticonvenzionali, che diventerà per lui non solo un terapeuta, ma anche un amico fidato. Il loro rapporto, intimo e profondo, è il cuore pulsante del film e trova il suo culmine nello storico discorso radiofonico del 1939, con cui Giorgio VI annuncia l’ingresso della Gran Bretagna nella Seconda Guerra Mondiale.
Il Discorso del Re è stato accolto con entusiasmo dalla critica e dal pubblico, conquistando numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio del pubblico al Toronto International Film Festival, cinque British Independent Film Awards, sette candidature ai Golden Globe (con la vittoria di Colin Firth come miglior attore), sette BAFTA e quattro Oscar, incluso quello per il miglior film.
Oltre ad essere un’opera storica impeccabilmente ricostruita, il film si distingue per la sua profonda umanità: è un racconto emozionante e ispiratore su come la fragilità possa trasformarsi in forza, quando sostenuta da coraggio, perseveranza e relazioni autentiche.
1. Colin Firth ha realmente studiato la balbuzie
Per interpretare Giorgio VI, Firth non si limitò a replicare un difetto di pronuncia: il suo obiettivo era comprendere la balbuzie dall’interno. Partecipò a sedute con logopedisti clinici e si sottopose a esercizi che simulavano le difficoltà nel controllo della respirazione e del ritmo della parola. Analizzò registrazioni di persone reali, ma anche testi scientifici sulla balbuzie evolutiva e neurogena. Inoltre, studiò le pressioni psicologiche che colpiscono chi vive sotto l’occhio pubblico e non può permettersi esitazioni. Per tutto il periodo delle riprese, continuò a consultarsi con terapisti e neurologi, e confessò che talvolta la fatica emotiva del ruolo lo rendeva più introverso anche nella vita privata.
2. Geoffrey Rush ha proposto la produzione
Rush non solo fu uno dei primi a credere nel progetto, ma fu determinante nel modellarne il tono. La sua esperienza teatrale lo portò a vedere Il discorso del re come una storia incentrata sull’ascolto, sulla presenza scenica e sull’equilibrio emotivo tra due uomini. Oltre a ospitare le letture iniziali nella sua casa, Rush suggerì modifiche nei dialoghi per rendere Lionel Logue più umano e meno “guru”. Fu anche coinvolto nel casting e nella scelta di alcuni attori secondari. Il suo coinvolgimento superò quello dell’attore classico: agì da mentore, consulente artistico e ambasciatore del progetto nei circuiti festivalieri.
3. È stato girato in appena sette settimane
Il film fu girato in 41 location diverse tra Londra, Ely, Lancaster House e Westminster. Nonostante i ritmi incalzanti, il regista Tom Hooper scelse un approccio estetico raffinato, ispirandosi ai quadri di Vermeer per la composizione dell’immagine: luce naturale, spazi asimmetrici e volti parzialmente in ombra. Questa scelta visiva rifletteva l’isolamento del protagonista. Le scene furono girate quasi tutte con obiettivi grandangolari per accentuare la solitudine del re, spesso messo ai margini dell’inquadratura, in contrasto con i vasti spazi vuoti della monarchia.
4. I discorsi reali sono stati usati come riferimento
Oltre ai documenti ufficiali, Colin Firth e Tom Hooper ebbero accesso alle registrazioni non pubbliche della BBC: test di prova, versioni scartate e bozze annotate con correzioni a mano del re. Questo materiale rivelava quanto ogni parola fosse calibrata per evitare balbettii. Firth notò, ad esempio, che Giorgio VI usava spesso la tecnica di parlare su ritmo musicale mentale, un metodo che Logue aveva insegnato. Alcune scene del film imitano questa pratica, con Logue che accompagna la voce del re come se dirigesse un’orchestra invisibile.
5. Il set dello studio di Logue era reale
Il team di produzione scelse una vera casa vittoriana semi-abbandonata in Portland Place, nel centro di Londra. I dettagli lasciati intatti — carta da parati scrostata, infissi in legno logoro, polvere sui mobili — riflettono non solo il passato di Logue come immigrato australiano, ma anche l’aspetto terapeutico dello “spazio sicuro”. Il contrasto tra lo studio e i palazzi reali sottolinea visivamente il tema centrale del film: il potere della vulnerabilità in un mondo formale e rigido. Alcuni degli oggetti di scena erano autentici cimeli d’epoca, acquistati da antiquari britannici.
6. La sceneggiatura era inizialmente un’opera teatrale
David Seidler scrisse una prima versione nel 1981, strutturata come duello verbale tra due personaggi: una sfida tra autorità e ribellione, tra educazione regale e spontaneità australiana. La sceneggiatura includeva indicazioni teatrali come “silenzio pesante”, “sguardo trattenuto”, e “respiro sospeso”, poi conservate anche nel film. In effetti, molte scene più iconiche (come la lettura del discorso nel finale) funzionano come veri e propri atti teatrali, con un crescendo drammatico che culmina nel silenzio carico di significato della sala radiofonica.
7. Una lunga attesa per rispetto alla regina madre
David Seidler, che da bambino balbettava a causa di traumi legati alla guerra, considerava Giorgio VI un eroe personale. Quando scoprì il ruolo di Logue, ne fu ossessionato. Il fatto che la regina madre gli avesse scritto personalmente fu per lui un momento commovente. Negli anni successivi, continuò a raccogliere materiale, intervistare discendenti di Logue e scrivere versioni della storia, senza mai cercare pubblicità. Alla morte della regina madre nel 2002, sentì che il momento era giunto, e la sceneggiatura prese forma in pochi mesi. La sua tenacia fu premiata: l’Oscar a Seidler per la miglior sceneggiatura originale arrivò a 73 anni.
8. Il titolo fu modificato per il pubblico americano
Oltre ai titoli alternativi proposti (The Speech That Changed the World, The Man Who Couldn’t Speak, Finding His Voice), la produzione valutò anche un titolo più epico: The Voice of the King. Tuttavia, si decise di preservare il gioco semantico contenuto in The King’s Speech, che riflette sia il contenuto (il discorso alla nazione) sia il conflitto interiore (il problema del linguaggio). In fase di marketing, il trailer americano fu tagliato per enfatizzare il tema del “superamento degli ostacoli”, più che quello storico, per attrarre un pubblico più ampio.
9. Colin Firth ha vinto l’Oscar al secondo tentativo
Firth venne descritto da Tom Hooper come “uno degli attori più musicali che abbia mai diretto”, per la sua capacità di modulare tono, ritmo e inflessione emotiva. La sua performance fu acclamata anche perché non melodrammatica: l’attore non cercò mai la pietà dello spettatore, ma rappresentò il re con compostezza e dignità. Durante la campagna per gli Oscar, Firth partecipò a numerosi eventi pubblici legati alla consapevolezza sulla balbuzie, usando la visibilità del film per sensibilizzare su questo disturbo spesso frainteso.
10. Lionel Logue non era un logopedista certificato
In un’epoca in cui la logopedia era ancora agli albori, Logue aveva imparato “sul campo”, trattando reduci da traumi di guerra con metodi intuitivi e personali. Oltre a tecniche fisiche, usava molto il dialogo terapeutico: chiedeva al paziente di parlare delle sue paure, dell’infanzia, dei sogni. Con Giorgio VI, non fu mai servile: rifiutò persino di chiamarlo “vostra maestà” nello studio, chiedendogli invece di considerarlo un collaboratore alla pari. Alcune frasi celebri del film, come “Io non ho un dottorato, ma so ascoltare”, sono tratte da veri appunti ritrovati nella corrispondenza tra Logue e la famiglia reale.
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Emanuela Giuliani