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Il Falsario, la recensione: un ritratto tra arte, inganno e potere nella Roma degli anni Settanta

Il Falsario racconta la storia di un artista-falsario nella Roma degli anni ’70, tra inganni, potere e il sottile confine tra vero e falso.

C’è un tempo, nella storia italiana, in cui la linea tra il genio e la truffa, tra l’artista e l’impostore, tra il bello e il falso si faceva sottile come una lama. Il Falsario, presentato alla 20esima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione “Grand Public”, affonda proprio in questa zona d’ombra. Diretto da Stefano Lodovichi e dal 23 gennaio su Netflix, il film racconta, ispirandosi liberamente alla figura di Antonio Chichiarelli, la parabola di un giovane pittore che, travolto da ambizione e dalle seduzioni del potere, diventa il più grande falsario d’Italia.

Ma chi era Antonio “Toni” Chichiarelli? Nella realtà, un artista e falsario romano degli anni Settanta, noto per aver falsificato opere di maestri come De Chirico e Morandi, ingannando galleristi, collezionisti e esperti d’arte. Oltre alla tecnica pittorica, possedeva carisma e intelligenza che gli permisero di muoversi con abilità in un mondo dell’arte in pieno fermento.

Ne Il Falsario, Toni, interpretato da un accattivante Pietro Castellitto, arriva nella Roma degli anni Settanta tra tensioni politiche e una criminalità sempre più raffinata, con l’aspirazione di sfondare nel mondo dell’arte. Ma la città non perdona l’ingenuità: lo accoglie, lo seduce e presto lo assorbe in un circuito in cui talento e inganno si confondono. Tra gallerie, servizi deviati, falsificazioni e pericolosi intrecci con la storia socio-politica nazionale — Brigate Rosse e rapimento di Aldo MoroToni si trasforma in un personaggio ambiguo, affascinante e inquietante, costantemente in bilico tra ciò che è e ciò che finge di essere.

Quando la finzione supera la realtà

Il film costruisce con grande efficacia l’atmosfera della capitale di quegli anni: una Roma febbrile, visionaria, a tratti allucinata, dove tutto sembra possibile e tutto ha un doppio fondo. Lodovichi firma una regia elegante, e dinamica che alterna momenti di tensione narrativa a squarci più intimi, quasi sospesi, il tutto avvolto da un’intelligente ironia che alleggerisce la storia rendendola allettante e scorrevole, mentre la fotografia, restituisce perfettamente il clima estetico e politico del tempo, segnato da una percezione collettiva di instabilità e complotto.

Il Falsario non è un thriller, né tantomeno un biopic. È una storia che ha al centro una riflessione profonda sull’autenticità, sul valore dell’arte e sul confine sottile tra creazione e imitazione, che racconta dell’identità e della maschera, di quanto siamo disposti a mentire — agli altri e a noi stessi — pur di essere visti, accettati e riconosciuti.

Il percorso di Toni non è solo una vicenda personale, ma anche lo specchio di una società in cui l’inganno è la regola e l’estetica uno strumento di potere, e nella sua discesa agli inferi, non è mai del tutto vittima né completamente carnefice: è un personaggio tragico, che trova nell’arte non solo uno strumento di espressione, ma anche un rifugio, una trappola e infine un’illusione.

Attorno a lui, Il Falsario costruisce una serie di riferimenti al sistema delle gallerie, ai servizi segreti deviati, ai grandi misteri italiani — come, per l’appunto, il caso Moro e la strategia della tensione — senza mai diventare cronaca, ma evocando un contesto dove il falso è strumento di controllo e sopravvivenza.

La narrazione è senza alcun dubbio ambiziosa, e cerca di tenere insieme molte linee: la storia di Toni, il mondo dell’arte, i legami con la criminalità e il potere politico, fino alla riflessione sull’Italia come realtà manipolata. Un mosaico che a tratti perde coesione, con passaggi affrettati o poco approfonditi, ma proprio questa ambizione è parte del fascino del film, che osa rischiare e mescolare più registri, distinguendosi dai soliti prodotti italiani su arte e crimine.

Pur ispirandosi a un personaggio realmente esistito, Il Falsario non è, di fatto, una ricostruzione fedele, ma gioca apertamente con la finzione e con la possibilità che ogni storia sia, in fondo, una falsificazione ben riuscita. Scelta che rafforza il film, rendendolo più attuale che mai in un’epoca in cui l’autenticità è continuamente messa in discussione e la verità è spesso ben confezionata, sia a livello mediatico che politico.

Tra i punti forti del film ci sono le interpretazioni. Pietro Castellitto, fragile e spavaldo con grande naturalezza nelle vesti di Toni, regala una prova convincente, ed Edoardo Pesce, Claudio Santamaria e Giulia Michelini sono solidi nel dare corpo a una Roma popolata da figure enigmatiche e pericolosamente ammalianti.

Niente è come sembra, e va bene così

Con Il Falsario Lodovichi, non si limita a raccontare una storia, ma la mette in discussione, la smonta, la reinventa, e nel farlo finisce per dire molto più di quanto ci si aspetterebbe. Ambizioso e complesso, a volte inciampa, è vero, perché cerca di dire molte cose tutte insieme, tuttavia lo fa con personalità e uno sguardo preciso e mai banale, e come il suo protagonista, non è mai quello che sembra. Sotto il thriller e il dramma identitario, il film attrae, diverte e pone una domanda cruciale: fin dove si è disposti a spingersi per arrivare dove si vuole? E soprattutto, chi si è pronti a sacrificare lungo la strada?

Di certo, alla fine, la verità ha sempre un lato nascosto, e forse va bene così, perché in un mondo dove la verità cambia continuamente, i ruoli si confondono e le facciate si trasformano in volti — o meglio, le finzioni si dissolvono in volti — ciò che conta davvero non è tanto la meta, quanto il prezzo che siamo pronti a pagare per raggiungerla.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

7


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