il grande gatsby immagine film

Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann: un viaggio sfarzoso nell’anima dell’America degli anni ’20

Un viaggio sfarzoso nell’anima dell’America degli anni ’20 con Il Grande Gatsby diretto da Baz Lurhmann con Leonardo DiCaprio.

Diretto nel 2013 da Baz Luhrmann e interpretato da Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire, Il Grande Gatsby rappresenta la trasposizione cinematografica più spettacolare e ambiziosa dell’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato nel 1925. Quarta versione destinata al grande schermo si distingue nettamente dalle precedenti: la prima, del 1926, era un film muto oggi considerato perduto; la seconda, del 1949, passò quasi inosservata; e la terza, del 1974, con Robert Redford e Mia Farrow, rimase a lungo la più famosa, fino a quando Luhrmann ha radicalmente ridefinito l’immaginario visivo del celebre protagonista.

Noto per il suo stile visionario e barocco, già emerso in opere come Moulin Rouge! e Romeo + Giulietta, Luhrmann infatti reinventa Il Grande Gatsby come un’esperienza sensoriale opulenta e travolgente, costruendo un universo estetico in cui l’essenza del testo originale si fonde con una cifra stilistica pop, moderna e volutamente anacronistica.

Ogni scena si trasforma così in un affresco cinematografico ricco di pathos e simbolismo, capace di restituire la complessità dell’“Età del Jazz” tra luci abbaglianti e ombre inquietanti, permettendo al film di cogliere e trasmettere la doppia anima del romanzo: da un lato, il fascino dorato del sogno americano; dall’altro, la sottile e corrosiva decadenza morale che ne mina le fondamenta.

Il sogno americano e la disillusione

Al centro del film c’è una delle riflessioni più amare della letteratura americana: la crisi del sogno americano con Jay Gatsby a incarnare l’ideale dell’uomo che si costruisce da solo, ma anche la rappresentazione della sua falsità. La sua ascesa, fondata su illusioni e ricchezze ottenute in modo torbido, non riesce a colmare il vuoto esistenziale che lo tormenta, e la sua ossessione per Daisy, simbolo di un passato perduto, diventa metafora dell’irraggiungibilità dei sogni. La domanda “Non puoi ripetere il passato?” e la risposta illusoria di Gatsby: “Certo che puoi”, racchiude il cuore tragico dell’opera.

Luhrmann mette inoltre in evidenza il divario tra “nuovi ricchi” e “vecchia aristocrazia” con una parte Gatsby e il suo entourage arrivisti e volgari; dall’altra Tom Buchanan, arrogante erede di un mondo che non intende aprirsi a chi arriva dal basso. Una frattura sociale rivela una società profondamente ipocrita, dove i privilegi sono blindati e le apparenze contano più della sostanza. L’indifferenza morale di Tom e Daisy, che “distruggono cose e creature e poi si ritirano nella loro ricchezza,” è forse l’accusa più feroce lanciata dal film.

Una Long Island da sogno e incubo

L’ambientazione del film gioca un ruolo centrale nel costruire il significato simbolico dell’opera. Baz Luhrmann reinterpreta la geografia immaginaria del romanzo, West Egg e East Egg, le due sponde opposte di Long Island, trasformandola in un efficace sistema di contrasti visivi e concettuali. West Egg, dove risiede Jay Gatsby, raffigura la nuova ricchezza: opulenta, abbagliante, ma priva di radici autentiche, mentre East Egg, la dimora dell’aristocratica famiglia Buchanan, diventa l’emblema della ricchezza ereditaria, raffinata ma decadente, simbolo di un’élite chiusa e impermeabile al cambiamento.

Accanto a questi spazi dorati, Luhrmann inserisce l’elemento di cruda disillusione della desolata “Valle delle Ceneri”, un paesaggio industriale soffocato dalla polvere e dal grigiore, dominato dalla presenza sinistra dell’enorme insegna pubblicitaria con gli occhi del dottor T. J. Eckleburg. Gli occhi ciechi e impassibili di questa insegna vegliano su un paesaggio dimenticato, che rappresenta il lato oscuro del sogno americano: un mondo misero e disumanizzante su cui si ergono le fortune dei pochi privilegiati.

La Valle delle Ceneri diventa così il contrappunto morale e visivo delle feste sfavillanti di Gatsby, un monito silenzioso che riequilibra il glamour con la realtà sottostante: un mondo fondato sull’illusione e sull’ingiustizia.

Tra realtà storica e visione barocca

Le scenografie del film, vincitrici di un Premio Oscar, sono curate da Catherine Martin, collaboratrice e moglie del regista. Un lavoro che fonde la ricostruzione filologica degli ambienti anni Venti con una cifra estetica personale, fortemente teatrale e a tratti surreale. La villa di Gatsby, ad esempio, richiama i grandi palazzi rinascimentali e le ville da sogno della costa americana, ma viene arricchita di eccessi, colori sgargianti e luci iperreali. Ogni spazio è progettato per essere esagerato, quasi finto, come le illusioni su cui si fonda il protagonista.

Il Plaza Hotel, teatro del confronto finale tra Gatsby e Tom, è altrettanto sontuoso quanto claustrofobico, simbolo di un lusso che soffoca più che esaltare. Gli spazi aperti, come giardini e pontili, assumono una funzione simbolica: sono i luoghi della malinconia, del desiderio e della solitudine su tutti, la celebre scena in cui Gatsby allunga la mano verso la luce verde.

La moda come narrazione

I costumi, anch’essi premiati con l’Oscar, sono un pilastro fondamentale della narrazione cinematografica, contribuendo in modo decisivo alla creazione dell’universo visivo del film. Ideati da Catherine Martin in collaborazione con Miuccia Prada, i costumi non si limitano a una semplice ricostruzione storica, ma propongono una rilettura raffinata e contemporanea. Il risultato è un perfetto equilibrio tra fedeltà d’epoca e sensibilità moderna, che rende i personaggi più vicini allo spettatore di oggi, pur preservandone l’aura mitica e iconica.

L’eleganza rarefatta di Daisy si traduce in abiti impalpabili, dalle tonalità madreperlacee, evocando un’immagine eterea, sospesa tra sogno e realtà, che ne non solo esalta la sua bellezza delicata, ma riflette anche la sua natura angelica e profondamente fragile, prigioniera della sua indecisione.

In Gatsby, invece, ogni abito, dai completi color avorio alle giacche perfettamente tagliate su misura, è un frammento della maschera che indossa per conquistare un mondo che lo rifiuta. L’eleganza sartoriale che lo caratterizza è tanto affascinante quanto rivelatrice: dietro la perfezione formale si cela il dramma di un’identità forgiata nell’illusione.

Particolarmente straordinari sono i costumi delle sontuose feste a casa di Gatsby: un tripudio di frange scintillanti, piume vaporose, paillettes iridescenti, cappellini cloche dalle linee sinuose e smoking dai colori audaci. Ogni dettaglio contribuisce a creare un’estetica barocca e vertiginosa, che trasforma queste scene in autentiche coreografie visive, al confine tra realtà e sogno. Le feste diventano vere e proprie rappresentazioni teatrali in cui la moda è racconto, simbolo e seduzione.

Il tempo sospeso

Una delle scelte più audaci e discusse del film è l’uso di una colonna sonora anacronistica, prodotta da Jay-Z, che mescola jazz, hip-hop, elettronica e pop contemporaneo. Luhrmann vuole dimostrare che l’eccesso, la ricerca spasmodica del piacere e il vuoto morale dei personaggi non sono fenomeni esclusivi degli anni ’20, ma tratti universali dell’animo umano e della società consumista. Le musiche di Beyoncé, Lana Del Rey e Florence + the Machine si intrecciano con motivi jazz e swing, creando un effetto straniante ma potente.

Questa scelta rafforza l’idea che Il Grande Gatsby non sia solo un film in costume, ma una riflessione universale sul desiderio, sull’identità e sulla caduta dei miti, e come la figura di Gatsby, il film vive tra due epoche: una passata che si vuole ricreare e una presente che lo interroga e lo reinventa.

Gatsby, lo specchio infranto del sogno americano

Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann è più di una semplice trasposizione cinematografica: è un’opera che fonde magnificenza visiva e profondità concettuale, riuscendo a restituire la complessità del romanzo di Fitzgerald senza mai rinunciare a uno stile audace e inconfondibile. Con una regia visionaria, scenografie sfarzose, costumi straordinari e una colonna sonora anacronistica ma sorprendentemente coerente, Luhrmann costruisce un universo estetico vibrante e seducente.

Il film riflette con forza sulle contraddizioni del sogno americano, smascherandone l’inganno e mettendo in luce le crepe di un ideale costruito sull’apparenza e sul desiderio di riscatto. Al centro della narrazione emergono temi universali: l’ossessione per il passato, l’illusione dell’amore perfetto, la fragilità dell’identità personale. Ogni personaggio sembra vivere in bilico tra ciò che è, ciò che appare e ciò che vorrebbe diventare.

Lontano da un approccio celebrativo o nostalgico, Luhrmann firma un’opera che affascina, destabilizza e invita alla riflessione. In questa tensione costante tra eccesso barocco e malinconia profonda, tra sogno e disincanto, Il Grande Gatsby, sia nel romanzo che nel film, continua a essere uno specchio frammentato ma rivelatore dell’anima americana, oggi più che mai.

©Riproduzione Riservata

Emanuela Giuliani


Pubblicato

in

da

Tag: