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Kate Hawley: “Con Guillermo del Toro, creare i costumi di Frankenstein è stato un atto d’amore”

La costumista Kate Hawley racconta la sua collaborazione con il premio Oscar e il meticoloso lavoro dietro ai costumi di Frankenstein.

C’è un senso di pura gioia e gratitudine quando Kate Hawley parla del suo ultimo progetto, Frankenstein, diretto da Guillermo del Toro, e guardando il film, non è difficile capire perché. Il lavoro della costumista — che da anni collabora con il regista, contribuisce infatti in modo essenziale a dare vita al mondo epico, malinconico e profondamente umano immaginato dal cineasta messicano.

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Nata a Wellington, in Nuova Zelanda, Hawley ha studiato graphic design e comunicazione visiva, per poi formarsi in teatro a Londra. Dopo quasi trent’anni di carriera — tra palco e grande schermo — il suo nome è legato a film come Amabili resti, la trilogia de Lo Hobbit e, con Del Toro, Pacific Rim e Crimson Peak, ma in Frankenstein, il suo talento raggiunge una nuova vetta: ogni dettaglio, dai costumi dei protagonisti alle divise dei soldati caduti, è costruito a mano, con una dedizione artigianale rara nel cinema contemporaneo.

Un lavoro che la Hawley, come riportato da AwardsWatch, ha presentato al Middleburg Film Festival 2025, parlando con passione della chiamata che l’ha riportata al fianco del cineasta, della potenza emotiva del progetto e della sfida di costruire un mondo visivamente grandioso e profondamente umano.

Quando del Toro le ha proposto di realizzare Frankenstein, Hawley non ha avuto dubbi: “Ho capito subito che non potevo perdermelo”, racconta. “Ero pronta a rifiutare qualsiasi altro progetto pur di esserci. Guillermo diceva sempre: ‘Ci siamo quasi’, e io restavo in attesa. È uno di quei viaggi che ti nutrono per anni, per la mente e per l’anima.”

La sceneggiatura, una volta letta, le ha strappato lacrime di emozione: “Era malinconica, potente e profondamente umana. Guillermo ha preso i temi classici del romanzo — la solitudine, la creazione, la natura — e li ha resi suoi. C’è mitologia, c’è speranza, e una tristezza dolce che ti resta dentro. Per me, il compito era servire due maestri: la visione del regista e la parola scritta.”

Mary Shelley, confessa, ha sempre avuto un posto speciale nel suo immaginario. “Amo il suo senso di solitudine e la presenza della natura. Vivo in una zona remota della Nuova Zelanda, e da lì traggo la mia ispirazione. Anche l’arte di quel periodo mi affascina — Füssli, Friedrich, Caravaggio, il mondo di Byron. È lo stesso linguaggio estetico che parla Guillermo: un gotico romantico, oscuro ma intriso di bellezza.”

La scala del progetto, ammette, l’ha inizialmente intimorita. Frankenstein spazia dall’Artico alle guerre di Crimea, da Edimburgo a Londra, tra palazzi, balli e prigioni. “Quando ho fatto il breakdown del copione ho pensato: “Oh mio Dio”. Ogni ambientazione era un mondo a sé, con un’identità visiva precisa. Abbiamo scherzosamente chiamato quel periodo “il mese delle lacrime”… che poi sono diventati quattro! Ma la squadra è stata incredibile, e la collaborazione tra i reparti ci ha permesso di affrontare tutto con entusiasmo.”

Per Victor Frankenstein, interpretato da Oscar Isaac, Del Toro aveva un’idea precisa: un personaggio che unisse l’eleganza romantica di Byron al magnetismo di una rockstar. “Guillermo lo descriveva come “David Bowie che entra in scena””, spiega Hawley. “Ci siamo ispirati all’estetica dell’horror Hammer e agli anni Sessanta. Oscar ha portato fascino, fragilità e irriverenza. Il suo guardaroba racconta la sua trasformazione: dal giovane visionario allo scienziato ossessionato, fino all’uomo distrutto del finale.”

Completamente diverso, ma altrettanto potente, è il percorso della Creatura, interpretata da Jacob Elordi. Il suo costume evolve insieme alla sua umanità. “All’inizio è coperto di bende, quasi una figura sacra”, dice la costumista. “Poi indossa il cappotto di un soldato morto, come se prendesse la pelle di un altro uomo. Ogni strato rappresenta un frammento della sua crescita. Quando incontra l’eremita, riceve abiti come dono — il primo gesto d’amore che riceve. Alla fine, sul ghiaccio, appare quasi regale, come un principe tragico. Guillermo voleva che fosse eroico, ma profondamente umano.”

Un ruolo centrale nel film è affidato anche alle figure femminili, legate da un sottile filo visivo. “Per Guillermo tutto si muove in cerchi”, racconta Hawley. “La madre di Victor, Claire, è un ricordo, la vediamo avvolta in un velo rosso. Quel rosso ritorna nell’abito nuziale di Elizabeth, come una linea di sangue che unisce le due donne. Elizabeth riflette più la Creatura che Victor: il suo abito è una gabbia toracica, un cuore esposto. È amore e dolore allo stesso tempo.”

Sul set, la realtà non è stata meno drammatica del film: ghiaccio, neve, fango e tempi di lavorazione ridotti al minimo. “C’era di tutto: seta distrutta, sangue, pioggia”, ricorda ridendo. “A causa degli scioperi, abbiamo dovuto correre. Alcuni costumi avevano decine di repliche per le scene d’azione. Ma quando vedi tutto prendere vita davanti alla macchina da presa, con la fotografia di Dan Laustsen, è pura magia.”

Lavorare con Guillermo del Toro, per Hawley, è sempre un’esperienza irripetibile. “Con lui c’è un linguaggio segreto, fatto di fiducia e colore. Ti sorprende sempre con un’idea migliore della tua, ma lo fa con entusiasmo e rispetto. È coinvolto in ogni fase: ti invita a vedere i montaggi, discute la luce, osserva ogni dettaglio. È un dialogo continuo. E nessuno, davvero nessuno, usa il colore come lui.”

Con Frankenstein, Kate Hawley firma uno dei lavori più poetici e intensi della sua carriera. Ogni costume diventa parte del racconto, un’estensione dell’anima dei personaggi e del mondo che abitano. “Questo film non ci appartiene più”, dice con un sorriso. “Ora è del pubblico.”


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