La recensione del film diretto da Francesco Patierno La Cura, quando la realtà e la finzione si scontrano senza trovarsi.
La Cura, diretto da Francesco Patierno, è un film che nasce come una rilettura personale e contemporanea de La peste di Albert Camus, e viene presentato alla 17esima Festa del Cinema di Roma come un’opera che fonde realtà e finzione, emozioni e disorientamento. Il regista ci introduce in una Napoli deserta durante il periodo del lockdown, tra strade vuote e angoli solitari, con luoghi simbolici come Corso Umberto, il Rione Sanità, le Terme e la stazione Magellina. La città, sospesa nel tempo, si trasforma in uno scenario quasi spettrale, che fa da sfondo ad una riflessione sulle paure, le difficoltà e le relazioni umane, così come nel romanzo di Camus.
Patierno racconta il suo film come un “libero adattamento contemporaneo” della celebre opera di Camus, avvertendo come il contesto della pandemia abbia dato una dimensione unica alla narrazione. Il film nasce infatti durante i primi giorni del lockdown, quando la troupe stessa ha vissuto esperienze che, come ammette lo stesso regista, hanno aggiunto un valore inaspettato alla storia. Il regista ha voluto esplorare due piani narrativi: la realtà e la finzione, che si alternano e si intrecciano fino a fondersi, spingendo lo spettatore a una riflessione sul concetto di “cura”, sia letteraria che emotiva.
L’intenzione di Patierno era di immergere lentamente il pubblico nel mondo di La peste senza che se ne accorgesse, ma il film, purtroppo, non riesce a raggiungere pienamente questo obiettivo. La storia, sebbene ben articolata, fatica a prendere forma, e la narrazione risulta spesso lenta e confusionaria, non riuscendo mai a costruire una vera tensione o a rendere giustizia al potente simbolismo dell’opera camusiana. I riferimenti al Covid-19 sono evidenti, ma non sufficientemente integrati in modo da darne una lettura profonda, restando invece ancorati a una rappresentazione a tratti troppo teatrale e a scene di lunga durata che appesantiscono il ritmo.
La coralità del cast, che include interpreti come Francesco Di Leva, Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio, Andrea Renzi, Antonino Iuorio e Peppe Lanzetta, è uno degli aspetti più affascinanti del film. I personaggi sembrano rispecchiare in modo sottile e potente le difficoltà e le emozioni del periodo vissuto, in un gioco continuo tra la finzione del film e la realtà della pandemia. Francesco Di Leva, nel ruolo di Bernard Rieux, si trova a vivere una sorta di fusione tra la sua vita e quella del personaggio, un’esperienza che lo porta a riflettere sul dolore e sulla solidarietà, temi cardine del romanzo di Camus. La sua interpretazione è intensa e profonda, e rende palpabile il dramma esistenziale del medico che deve affrontare l’inesorabilità della malattia e della morte.
Anche Cristina Donadio, nel ruolo di Cottard, incarna uno degli aspetti più oscuri della società: l’indifferenza di chi approfitta della pandemia per arricchirsi. Il suo personaggio rappresenta la “darkside” del Covid, ed è forse l’unico a non avere un riscatto umano, rimanendo intrappolato in una visione egoistica e insensibile.
La fusione di realtà e finzione è evidente anche nelle scelte stilistiche del regista. Patierno rompe spesso la “quarta parete”, spiazzando lo spettatore con scene dove gli attori interagiscono con la troupe, come nel momento in cui il personaggio di Antonino Iuorio, che è anche un attore, si ritrova a piangere in scena, creando un momento di confusione tra le emozioni genuine dell’attore e quelle del personaggio che interpreta. È un approccio rischioso, ma che arricchisce la riflessione sul confine tra realtà e rappresentazione.
Tuttavia, nonostante questi tentativi stilistici interessanti, La Cura non riesce a coinvolgere pienamente il pubblico. La scelta di non nominare esplicitamente la città o di non contestualizzare pienamente i luoghi riconoscibili lascia una sensazione di smarrimento, come se la narrazione fosse sempre in bilico senza mai prendere una direzione chiara. Questo porta a una frustrazione crescente nello spettatore, che si ritrova più a riflettere sull’incertezza della situazione pandemica che a immergersi nell’universo camusiano.
Il film si avvicina, dunque, al suo tema centrale, quello della malattia e della morte, ma lo fa in modo indiretto, senza la forza evocativa che ci si aspetterebbe da un’opera che si ispira a un classico della letteratura. La sensazione che lascia è quella di una storia incompleta, che non trova mai il suo equilibrio tra la riflessione filosofica e la narrazione drammatica.
In conclusione, La Cura è un film che, purtroppo, non riesce a raggiungere pienamente le sue ambizioni, nonostante la qualità della recitazione e la bellezza visiva delle scene. Si rimane con la sensazione di aver assistito a un’opera che ha voluto raccontare una verità universale ma che non è riuscita a farlo con la forza necessaria. Un esperimento interessante, ma che non riesce a compiere il salto necessario per diventare un’esperienza cinematografica davvero indimenticabile.
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Emanuela Giuliani
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