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La moglie di Frankenstein: tra gotico, simbolismo e inquietudini moderne

La moglie di Frankenstein, tra gotico, simbolismo e inquietudini moderne nel capolavoro del 1935 diretto da James Whale.

Diretto da James Whale nel 1935, La moglie di Frankenstein (The Bride of Frankenstein), secondo capitolo della celebre saga horror gotica prodotta dalla Universal Pictures, ispirata al romanzo di Mary Shelley, è considerato uno dei vertici assoluti del cinema horror classico, segnando un’importante evoluzione rispetto al primo episodio, sia sul piano narrativo che simbolico.

In questa nuova fase infatti, la figura del mostro si trasforma profondamente e non è più solo una creatura incompresa e temuta, ma un essere tormentato da un dramma umano e spirituale, con il suo desiderio di amore e appartenenza che si fa più intenso e si scontra con un mondo che continua a respingerlo. Incontri chiave, come quello con l’eremita cieco, regalano momenti di rara tenerezza, e attraverso la compagnia, il linguaggio e la musica, la creatura assapora brevemente la possibilità di una connessione autentica. Tuttavia, il rifiuto della sposa, appena creata, lo condanna a una nuova e definitiva solitudine. Una consapevolezza questa d cui nasce la sua scelta finale, ovvero distruggere sé stesso e la compagna, salvando Henry ed Elizabeth, rinunciando così per sempre a un’esistenza segnata dal dolore.

Il Mostro e la Sposa: un destino spezzato

Il film si apre con un raffinato prologo metanarrativo, ambientato in una villa nei pressi di Ginevra, dove Mary Shelley, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron discutono dell’impatto del romanzo Frankenstein, con Mary a introdurre il seguito della storia dando così il via alla narrazione cinematografica.

Il mostro, sopravvissuto all’incendio del mulino, vaga per la campagna seminando il terrore, ed Henry Frankenstein, scampato anche lui alla morte, promette alla moglie Elizabeth di abbandonare definitivamente i suoi esperimenti. Ma l’arrivo del dottor Pretorius, ex mentore, figura megalomane e manipolatrice, lo trascina nuovamente nel vortice della creazione proponendogli di dare vita a una compagna per la creatura, con l’ambizione di fondare una nuova razza artificiale.

Henry, inizialmente riluttante, cede quando la creatura rapisce Elizabeth per costringerlo a collaborare, e nel laboratorio gotico, tra fulmini e strumenti alchemici, prende forma la “sposa”. Il mostro la accoglie con speranza, ma lei lo respinge con terrore, e lui distrutto dal dolore, compie il suo ultimo gesto: fa esplodere il laboratorio, liberando Henry ed Elizabeth e ponendo fine alla sua tragica esistenza.

Il mostro e l’umanità

Fin dalla sua creazione, la Creatura è condannata a un’esistenza ai margini, esclusa da ogni contesto sociale e familiare. La moglie di Frankenstein esplora con straordinaria sensibilità il tema dell’identità, affrontandolo attraverso il prisma dell’alterità: il mostro non possiede una definizione propria, ma si costruisce nel confronto, o meglio, nello scontro, con un’umanità che lo rifiuta sistematicamente. La sua incessante ricerca di una compagna, di un essere simile a lui capace di comprenderlo e accoglierlo, diventa il simbolo profondo del bisogno di uno specchio, di un altro che possa restituirgli un senso di sé. Tuttavia, anche questo desiderio fondamentale gli viene negato, sancendo così l’impossibilità di una piena integrazione nel consorzio umano e accentuando la sua condanna alla solitudine.

Il film riflette anche sui limiti morali della scienza e sulla tentazione prometeica di superare i confini naturali della vita. In questo senso, Frankenstein e il dottor Pretorius incarnano due volti della stessa hybris scientifica: il primo appare lacerato dal dubbio e dal rimorso, il secondo invece rappresenta un’ambizione cieca, spietata, priva di freni etici. La loro alleanza, nella creazione di una nuova vita, diventa un monito contro una scienza slegata da ogni responsabilità morale. Concepire la vita, senza assumerne le conseguenze, conduce inevitabilmente alla catastrofe: non è solo l’atto della creazione a essere messo sotto accusa, ma soprattutto l’incapacità di accogliere e amare ciò che si è generato.

Al centro della narrazione si impone così una domanda profondamente universale: chi è davvero degno d’amore? La Creatura non desidera vendetta, ma comprensione, affetto, accettazione, nonostante ciò, viene rifiutata da tutti, persino dalla “sposa” ideata appositamente per lei, il che trasforma la sua esistenza in una tragedia della solitudine, acuita dalla consapevolezza di essere irrimediabilmente “altro”, escluso da ogni relazione autentica. Il film mette così in scena non tanto un orrore fisico, quanto un dramma esistenziale.

In questo senso, La moglie di Frankenstein rovescia radicalmente i codici estetici e morali del suo tempo. La Creatura, pur nel suo aspetto mostruoso, si rivela spesso il personaggio più umano, mosso da bisogni e sentimenti sinceri, a differenza dei cosiddetti “normali”, Henry, Pretorius, Elizabeth, guidati da paure, ambizioni, pregiudizi e ipocrisie. James Whale sembra suggerire che il vero orrore non risieda nella diversità o nella deformità, ma in una società che non sa, o non vuole, accogliere ciò che è diverso. Il film, allora, si configura non solo come un racconto gotico, ma come una potente riflessione etica sull’empatia, sull’amore negato e sulla responsabilità dell’uomo nei confronti delle sue creazioni.

Tra sacro e profano: l’iconografia religiosa nel film

La sposa di Frankenstein è intrisa di riferimenti cristiani spesso reinterpretati in modo ambiguo o destabilizzante dalla forte carica simbolica. Il mostro non è soltanto una creatura temibile, ma una figura dolente, vittima di rifiuto e solitudine che richiama per molti versi l’immagine del martire.

In una scena particolarmente suggestiva, il mostro viene legato in una posa che richiama esplicitamente la crocifissione, evocando un’immagine più vicina al martirio che alla mostruosità, e suggerendo quindi sofferenza e sacrificio. In un’altra sequenza, in un cimitero, una statua del Cristo crocifisso domina la scena, accentuando la dimensione sacrificale che circonda la figura del protagonista.

Il momento più carico di simbolismo però forse è l’incontro con l’eremita cieco, che non potendo vederlo lo accetta senza pregiudizi e, in un’atmosfera di sospesa intimità, il mostro trova accoglienza, comprensione e condivide con l’uomo pane e vino richiamando chiaramente il rito eucaristico che trasforma il pasto in un atto di comunione e riconciliazione. Attraverso queste immagini, il film rilegge in modo originale l’immaginario cristiano, sfumando i confini tra mostruoso e umano, tra dannazione e redenzione, con il mostro che emerge come una figura tragica e profondamente umana, il cui dolore riflette quello di chi è escluso e desidera soltanto essere accettato.

Il critico David J. Skal ha visto in questo e altri passaggi un parallelo potente tra il mostro e Cristo: entrambi esseri emarginati, incompresi e destinati a un destino di sofferenza e sacrificio. In contrapposizione, lo studioso Scott MacQueen sostiene invece che James Whale, noto per la sua mancanza di fede religiosa, abbia orchestrato una sorta di parodia del divino dal momento che il mostro non è una creatura di Dio, ma dell’uomo, non è redentore ma il prodotto di una scienza priva di etica e spiritualità. Una figura post-religiosa, bruciata vivo e poi “risorta” non per salvare l’umanità, attraverso cui Whale decostruisce l’ordine evangelico dando vita a una riflessione profonda sul sacro, sul peccato e sulla condizione umana nell’era moderna.

La dimensione e la sensibilità queer

Nel corso degli anni, La moglie di Frankenstein è stato oggetto di molteplici letture in chiave queer poichè James Whale, uno dei pochi registi dell’epoca apertamente omosessuali, ha infuso nella pellicola una sensibilità che molti critici riconoscono come profondamente queer, espressa soprattutto con un’estetica ricca di teatralità, ironia e ambiguità.

Emblematica è la figura del dottor Pretorius, interpretato con raffinata ambiguità da Ernest Thesiger. Sofisticato, effeminato e volutamente decadente, Pretorius si pone come un’alternativa seducente e al contempo perturbante rispetto a Henry Frankenstein. La dinamica tra i due uomini è carica di tensioni sottili, quasi erotiche, che aprono la narrazione a una lettura stratificata dei desideri repressi e delle relazioni di potere celate sotto la superficie del racconto gotico.

Nonostante il biografo di Whale, James Curtis, respinga l’ipotesi di una lettura queer della creatura stessa, alcuni studiosi vedono nel mostro una potente allegoria dell’individuo marginalizzato: costretto a nascondere la propria identità in una società che non lo accetta, incarnando l’esperienza della solitudine, del desiderio inappagato e per l’appunto del rifiuto. Una condizione che risuona profondamente con quella vissuta da molte persone omosessuali nell’America degli anni Trenta, dove esclusione sociale e invisibilità erano la norma.

Una tragedia gotica sull’identità e sull’amore negato

La moglie di Frankenstein è un’opera di straordinaria complessità e raffinatezza che con la sua estetica espressionista, la densità simbolica, la profondità psicologica dei personaggi e la costante tensione tra orrore e umanità, si afferma come una delle vette più alte e stratificate della storia del cinema.

È una tragedia moderna mascherata da racconto gotico, capace di sovvertire le convenzioni del genere per dare voce a riflessioni universali sul dolore dell’esclusione, sul bisogno viscerale di appartenenza e sulla difficile lotta per essere accettati nella propria autenticità. La Creatura, con il volto segnato e lo sguardo intriso di speranza disillusa, diventa l’emblema dell’anelito umano più profondo: essere amati, essere compresi. In questo paradosso struggente, il “mostro” si rivela forse la figura più autenticamente umana dell’intera vicenda.

Ancora oggi, a quasi un secolo dalla sua uscita, La moglie di Frankenstein conserva una potenza espressiva intatta, continuando a interrogare lo spettatore con disarmante lucidità: cosa significa essere vivi? Chi stabilisce i confini tra naturale e innaturale? Dove finisce il creatore e dove inizia la creatura? Qual è il vero volto dell’amore, e quale quello del rifiuto?

Domande senza risposta, dolore silenzioso e bellezza tragica che avvolgendo ogni inquadratura celando l’eredità immortale del film, un classico che continua a parlare al presente con voce inquieta e profonda.

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Emanuela Giuliani


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