La Paranza dei Bambini, la recensione del film diretto da Claudio Giovannese tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano.
La paranza dei bambini, diretto da Claudio Giovannesi e tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano, è un’opera che scuote nel profondo, per la sua capacità di raccontare la criminalità giovanile da una prospettiva inedita, intima e lacerante. Ambientato nella Napoli contemporanea, tra il Rione Sanità e i Quartieri Spagnoli, il film segue un gruppo di quindicenni – Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ e Briatò – che si affacciano con incoscienza alla vita criminale, in cerca di affermazione, potere e, nel loro immaginario, giustizia.
Il film affonda le sue radici in un testo letterario altrettanto crudo e penetrante: il romanzo La paranza dei bambini, pubblicato nel 2016 da Feltrinelli, è un lavoro narrativo che segna una svolta nel percorso di Saviano. Dopo il saggio-denuncia Gomorra, con cui lo scrittore aveva svelato i meccanismi della camorra adulta e strutturata, qui lo sguardo si abbassa – in senso sia anagrafico che umano – verso un’umanità più giovane, più acerba, ma non per questo meno tragica. Con un linguaggio ibrido, realistico e spietato, Saviano costruisce una narrazione che segue lo stesso Nicola del film: un ragazzo ambizioso, intelligente, che vuole “fare il bene” con i mezzi del male, in un contesto dove la legalità è percepita come debolezza, e il crimine come l’unico ascensore sociale possibile.
Il termine “paranza”, preso in prestito dal mondo della pesca, designa i piccoli pesci che vengono catturati con le reti: sono giovani, facili da prendere, sacrificabili. Allo stesso modo, nel gergo criminale napoletano, le paranze sono le bande di giovanissimi arruolati nei clan per compiti violenti, impiegati come carne da cannone. Il romanzo non si limita a raccontare le loro azioni, ma entra nei loro pensieri, nel linguaggio spezzato e codificato che usano, nel desiderio furioso di apparire adulti e dominare un mondo che, invece, li divora. Saviano dà voce a un’intera generazione cresciuta tra social network, culto dell’immagine, assenza di riferimenti etici e familiari stabili, in un’epoca dove la vita si consuma veloce e la morte arriva a tredici anni, come nei racconti di guerra.
Il grande valore letterario del libro sta nel suo sguardo immersivo e privo di retorica: la narrazione non prende mai distanza morale dai protagonisti, ma lascia che siano loro stessi, con le loro contraddizioni e illusioni, a parlare. La violenza non viene mai spettacolarizzata, ma raccontata nella sua meccanica quotidiana, nel modo in cui si insinua nelle piccole cose – in un gesto, in una battuta, in un like su Facebook. In questo modo, Saviano denuncia una realtà che non è più solo napoletana: le paranze sono un modello criminale replicabile ovunque, e parlano di una fragilità globale, dove l’infanzia diventa merce di scambio, ed è sacrificata sull’altare del potere.
Il film di Giovannesi, nel rispetto dello spirito del libro, riesce a tradurre questa complessità in immagini scarne e potenti. La scelta di non far leggere la sceneggiatura agli attori, di lasciarli vivere la storia giorno per giorno come i loro personaggi, restituisce una verità disarmante, con le emozioni che non sono simulate: sono vissute. E così, l’adattamento cinematografico non è solo fedele al romanzo nei contenuti, ma anche nel tono, nella tensione morale, nella denuncia implicita di un mondo che ha fallito nel proteggere i più giovani.
La paranza dei bambini è quindi molto più di una storia criminale: è un racconto di formazione spezzato, un romanzo (e un film) che descrive la tragedia di crescere senza scelte reali, dove anche la speranza diventa una trappola. Una visione che lascia il segno, perché costringe a guardare ciò che spesso preferiamo ignorare: che in alcune periferie dell’Europa contemporanea, si continua a morire come nel Medioevo.
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Emanuela Giuliani
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