La brutalità della realtà e il sogno impossibile di redenzione di La terra dell’abbastanza, esordio alla regia dei fratelli D’Innocenzo.
La realtà è brutale, e i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo non hanno alcuna intenzione di abbellirla. La violenza, dicono, è sempre sciatta, e il cinema non deve necessariamente rendere tutto più sopportabile. Con queste premesse, il loro film d’esordio, La terra dell’abbastanza, si afferma come un’opera spietata e senza filtri, che riflette sulle illusioni e i fallimenti di una generazione intrappolata nella periferia romana.
Presenti alla proiezione e all’incontro stampa, insieme a parte del cast composto da Matteo Olivetti (al suo esordio attoriale), Max Tortora e Milena Mancini, i due registi hanno chiarito il loro intento: andare oltre la semplice rappresentazione stereotipata della criminalità giovanile, per esplorare in profondità il degrado interiore che deriva dall’ossessione di migliorare la propria condizione a qualunque costo. La loro opera evita moralismi e letture consolatorie, restituendo un ritratto impietoso della realtà sociale e individuale di chi nasce ai margini. La periferia romana, con le sue palazzine anonime, le strade deserte e i campetti polverosi, diventa non solo un’ambientazione, ma un vero e proprio personaggio, una gabbia che trattiene e condiziona le scelte dei protagonisti.
Il film racconta la storia di due adolescenti, Mirko (Andrea Carpenzano) e Manolo (Matteo Olivetti), che si muovono in un contesto di periferia ostile e soffocante. In un ambiente privo di prospettive, i due ragazzi nascondono le proprie paure e ignorano la voce della coscienza, trovandosi a fronteggiare scelte irreversibili. Dopo aver investito accidentalmente un pentito di un clan locale, invece di essere travolti dal rimorso, vedono nella tragedia una possibile svolta. L’omicidio diventa un’occasione per entrare nel mondo della malavita, un biglietto d’ingresso per un universo di potere e denaro che sembra promettere un futuro diverso. Ma la discesa negli inferi della criminalità è rapida e senza ritorno: la loro esistenza viene inglobata in una spirale di violenza, esecuzioni, prostituzione e traffici illeciti.
A spingere Manolo su questa strada è il padre Danilo (Max Tortora), un uomo fallito, ingabbiato nella dipendenza dal gioco d’azzardo e incapace di offrire un’alternativa al figlio. Danilo vede nel coinvolgimento di Manolo nel crimine una possibilità di riscatto sociale, un modo per ottenere il rispetto e il benessere che lui stesso non ha mai raggiunto. Ma la sua è una lotta disperata, un tentativo di sfuggire alla propria mediocrità che si rivela solo un’ulteriore forma di autodistruzione. Il personaggio di Danilo diventa emblema di una generazione di padri sconfitti, incapaci di guidare i propri figli e inconsapevoli del danno irreparabile che causano.
Dall’altro lato, Alessia (Milena Mancini), madre di Mirko, rappresenta un’altra sfumatura di fragilità. La sua figura materna, pur volendo opporsi alla deriva del figlio, si trova impotente di fronte alla realtà che la circonda. Il suo tentativo di fermare il declino si trasforma presto in rassegnazione, segno di una sconfitta esistenziale che colpisce non solo i giovani, ma anche gli adulti incapaci di offrire una via di fuga da un destino già scritto. La sua sofferenza è silenziosa, i suoi occhi parlano più delle parole, raccontando il dramma di una madre che vede il proprio figlio scivolare via senza poterlo salvare.
La regia dei D’Innocenzo si distingue per il suo rigore essenziale. Il linguaggio filmico evita eccessi drammatici, puntando sulla potenza espressiva degli sguardi, dei silenzi, dei gesti tesi e insicuri. I dialoghi sono ridotti al minimo, essenziali e taglienti, lasciando che siano le immagini e l’atmosfera a comunicare il senso di inquietudine e oppressione. La fotografia, fredda e desaturata, contribuisce a rafforzare la sensazione di ineluttabilità, restituendo la cruda verità della periferia romana senza edulcorazioni. Il montaggio asciutto e la colonna sonora quasi assente aumentano la sensazione di realismo, facendo immergere lo spettatore in un mondo dove la speranza è un lusso che nessuno può permettersi.
In conclusione, La terra dell’abbastanza è un’opera che colpisce con la sua brutalità, costringendo lo spettatore a confrontarsi con una realtà che spesso si preferisce ignorare. Non c’è spazio per speranze illusorie o redenzioni forzate: il film dei fratelli D’Innocenzo si fa portavoce di una visione amara e realistica del mondo, un mondo in cui la violenza non è spettacolarizzata, ma si insinua nella quotidianità come un veleno silenzioso. Un esordio cinematografico potente e necessario, capace di scuotere nel profondo. La terra dell’abbastanza si inserisce nella tradizione del cinema neorealista italiano, aggiornandone il linguaggio e le tematiche, dimostrando che il realismo più crudo può ancora essere un mezzo efficace per raccontare il presente.
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Emanuela Giuliani
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