L’età dell’innocenza, la recensione, il desiderio prigioniero delle convenzioni sociali nel capolavoro diretto da Martin Scorsese.
Tratto dall’omonimo romanzo di Edith Wharton, pubblicato nel 1920 e vincitore del Premio Pulitzer l’anno successivo, L’Età dell’Innocenza uscito nel 1993, è una delle opere più eleganti e malinconiche dirette da Martin Scorsese, che si distingue per la sua ricercata delicatezza lontana dai toni crudi e violenti delle pellicole più celebri del cineasta newyorkese, ma non per questo meno potente. Un film che nella compostezza e nell’apparente nasconde un tumulto emotivo profondo, una riflessione struggente sull’amore represso, sull’oppressione silenziosa delle convenzioni sociali e sulla rinuncia come forma più alta e tragica di amore.
Ambientato nella New York aristocratica degli anni 1870, L’Età dell’Innocenza racconta il conflitto tra i desideri individuali e le aspettative della società con una grazia visiva e narrativa che ne fa un eccezione nel panorama del cinema americano degli anni ’90. Il protagonista, Newland Archer (interpretato da un misurato e intensissimo Daniel Day-Lewis), è un giovane avvocato promesso sposo alla dolce e irreprensibile May Welland (Winona Ryder), il cui equilibrio esistenziale, costruito su fondamenta solide ma convenzionali, viene scosso dall’arrivo della contessa Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer), cugina di May, da poco tornata a New York dopo una separazione scandalosa da un matrimonio infelice in Europa.
Tra Newland ed Ellen nasce un legame profondo e proibito, un sentimento che scardina le certezze borghesi del protagonista e lo mette di fronte alla scelta più difficile: seguire la passione o piegarsi al peso della tradizione. Ma in un mondo dove l’apparenza e il decoro sono tutto, l’amore si trasforma in un sacrificio silenzioso, in una tensione costante tra ciò che si desidera e ciò che è concesso.
Una deviazione stilistica che rivela un’altra anima di Scorsese
Scorsese, maestro del racconto urbano e violento, con L’Età dell’Innocenza si confronta con una dimensione narrativa diametralmente opposta, ma lo fa con un rigore e una sensibilità straordinari. La sua regia non perde nulla in intensità: al contrario, si esprime attraverso la precisione chirurgica del dettaglio, l’eloquenza dei silenzi e la densità emotiva dei non detti. Il film è un raffinato studio sulla repressione, sulla fragilità dell’individuo imprigionato in un mondo di apparenze, e sull’ineluttabilità delle scelte dettate da un contesto sociale implacabile.
La messa in scena è sontuosa e impeccabile. I costumi, premiati con l’Oscar, restituiscono con straordinaria fedeltà lo sfarzo e le rigidità dell’epoca, così come le scenografie e la fotografia, firmata da Michael Ballhaus, trasformano ogni inquadratura in un dipinto ottocentesco, avvolto da una luce morbida e crepuscolare che amplifica il senso di malinconia e decadenza. Ogni elemento scenografico è funzionale alla costruzione di un mondo che appare perfetto ma è, in realtà, una prigione dorata, così come la colonna sonora, composta da Elmer Bernstein, agisce con discrezione ma efficacia, sottolineando con note struggenti e misurate il pathos nascosto sotto la superficie levigata della narrazione.
Un cast eccezionale, al servizio del non detto
Il cast è semplicemente straordinario, capace di reggere un film in cui gran parte della tensione si gioca sul piano psicologico ed emotivo. Daniel Day-Lewis, con la sua recitazione restituisce con toccante verità l’inquietudine di Newland Archer, un uomo diviso tra il desiderio di autodeterminazione e il bisogno, quasi masochistico, di appartenere a un sistema che lo rassicura quanto lo opprime. Ogni suo gesto, sguardo e esitazione raccontano il peso della rinuncia e della consapevolezza che la libertà ha un prezzo che non tutti possono, o vogliono, pagare.
Michelle Pfeiffer dà vita a una Ellen Olenska affascinante, tormentata e sottile. Il suo personaggio è la personificazione del desiderio non convenzionale, della possibilità di una vita diversa, autentica, ma anche del dolore legato all’essere sempre fuori posto. Ellen è una figura ambigua e moderna, che sfida la morale pur non volendo distruggere nulla, è la presenza silenziosa e perturbante che scardina l’ordine, non con la ribellione ma con la sua semplice esistenza.
Winona Ryder, infine, offre una delle sue prove più sottili e complesse. La sua May Welland, inizialmente percepita come ingenua e superficiale, rivela progressivamente una lucidità inquietante, una forza nascosta che si traduce nella capacità di manipolare e controllare gli eventi senza mai tradire il proprio ruolo. È lei, forse, il vero emblema del potere silenzioso delle convenzioni.
Una narrazione che respira nei silenzi e rinunce
Il ritmo lento e contemplativo del film potrebbe non essere adatto a tutti, ma è esattamente ciò che permette alla narrazione di respirare, non si tratta di una lentezza gratuita, bensì di una scelta estetica e narrativa coerente con la materia trattata: ogni pausa, dialogo misurato e scambio di sguardi è carico di significato. L’Età dell’Innocenza si sviluppa come un lungo sussurro, un’esplorazione del non vissuto, del trattenuto, dell’irrealizzato, e in questo senso è anche un film sulla memoria, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
L’Età dell’innocenza è una meraviglia sommessa e dolorosa, una riflessione profonda sul prezzo del conformismo e sulla violenza invisibile delle regole sociali. È una storia d’amore impossibile, certo, ma soprattutto è il racconto di come il desiderio, quando non può essere espresso, si trasformi in una ferita silenziosa che accompagna una vita intera. Con L’Età dell’innocenza, Scorsese dimostra ancora una volta la sua capacità di indagare l’animo umano al di là dei generi e delle ambientazioni, e ci consegna un’opera in cui la bellezza visiva si fonde con la malinconia esistenziale, lasciando lo spettatore con la sensazione struggente di un’occasione perduta, di una felicità mai realmente vissuta.
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Emanuela Giuliani
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