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L’Étranger, la recensione: Ozon rilegge Camus con rigore e distanza emotiva

François Ozon rilegge il capolavoro di Albert Campus: L’Étranger, e lo fa con compostezza formale e distanza emotiva.

A nove anni da Frantz, François Ozon torna in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, giunta alla sua 82esima edizione, con una sfida ancora più ambiziosa: portare sullo schermo uno dei pilastri della letteratura del Novecento, L’Étranger di Albert Camus.

Il film, che segna inoltre il ritorno del regista francese a un cinema intimista e filosofico, intrecciando riflessione esistenziale e rigore formale, è interpretato da un cast d’eccezione guidato da Benjamin Voisin, volto del protagonista Meursault, affiancato da Rebecca Marder, Swann Arlaud, Pierre Lottin e dal veterano Denis Lavant.

François Ozon trasporta quindi lo spettatore nella calda e indifferente Algeri del 1938, dando nuova vita a una storia che ha segnato intere generazioni. Meursault è un impiegato sulla trentina che vive con distacco e apatia, tanto che al funerale della madre non mostra alcuna emozione, segnale del suo allontanamento dalle convenzioni sociali. Il giorno dopo inizia una relazione occasionale con la sua collega Marie, per poi riprendere rapidamente la sua routine. Tuttavia, l’amicizia con il vicino Raymond lo coinvolge in situazioni ambigue e violente, e sotto il sole di Algeri un incontro fatale sulla spiaggia cambierà per sempre la sua vita, trasformandola in una tragedia.

Distribuito da BiM in associazione con Lucky Red, L’Étranger arriverà nelle sale italiane nel 2026. Ma il cinema è davvero in grado di restituire l’ambiguità e il silenzio morale del Meursault di Camus?

Un’estetica dell’assenza

Ozon firma un adattamento intenso e personale, che esplora con lucidità i temi dell’assurdo, della colpa e dell’alienazione, mettendo in scena un’Algeri quasi sospesa, costruita con attenzione sia visivamente sia dal punto di vista sonoro. Le atmosfere secche, quasi immobili, riflettono il vuoto esistenziale del protagonista, con il sole che assume un ruolo ricorrente e quasi ostile, e con la fotografia di Hélène Louvart, che lavora sulle saturazioni e sul contrasto per sottolineare l’oppressione fisica e metafisica che grava su Meursault.

Benjamin Voisin offre una prova straordinaria: il suo Meursault non cerca né empatia né giustificazione, restituendo quella sensazione di straniamento che ha reso celebre il personaggio di Camus, mantenendo uno sguardo vacuo, distante, ma mai vuoto. Accanto a lui, Rebecca Marder dà umanità al personaggio di Marie, e Denis Lavant, in un ruolo minore ma incisivo, incarna la voce del giudizio e della norma.

La regia di Ozon si muove con rigore geometrico, lasciando spazio al silenzio, ai gesti, ai dettagli che sfuggono. È un cinema che riflette più che raccontare, che chiede allo spettatore di confrontarsi con domande scomode: cosa significa essere liberi? Cosa succede quando si rifiuta di mentire su ciò che si prova – o non si prova?

L’Étranger non cerca compromessi emotivi, perché Ozon ha colto nel profondo il vero cuore del romanzo di Camus: non si tratta di raccontare un delitto, ma di esplorare l’incomprensibilità della vita, il suo senso mancante, e la dignità di chi accetta tutto questo senza cercare consolazioni. E il film ci riesce, anche se conosce i suoi limiti. La parola scritta, con la sua ambiguità e delicatezza, forse resta insuperabile, ma il cinema, grazie alle immagini e ai silenzi, riesce a mostrare quel vuoto in modo concreto e palpabile.

Ozon non dà risposte, ma, come Camus, pone domande e, nel farlo, riporta al centro del dibattito non solo un capolavoro della letteratura, ma anche una riflessione sull’individuo, sulla sua irriducibile solitudine e sull’impossibilità di trovare un significato in un mondo che spesso sfugge alla logica. L’Étranger parla a ognuno di noi nel momento in cui l’assurdo diventa reale e la vita ci sfida senza pietà, non offrendo risposte facili, ma spingendoci a guardarci dentro, ad affrontare le nostre contraddizioni e a restare umani di fronte al silenzio dell’esistenza.

Nonostante ciò, la visione, dal ritmo volutamente lento e dalle inquadrature spesso statiche e prolungate, mette alla prova lo spettatore e rallenta la percezione di quel tempo sospeso e indefinito su cui il film costruisce la propria atmosfera. Una scelta che, se da un lato accentua l’estraneità, il distacco emotivo e l’apatia di Meursault nei confronti del mondo che lo circonda, dall’altro rende meno immediato il coinvolgimento, soprattutto nella seconda parte, dove la narrazione si fa più sottile. In alcuni momenti, le scelte visive del film sembrano più pensate per essere belle che per coinvolgere davvero, e questo può ridurre un po’ l’impatto emotivo e il significato profondo

Tra rigore formale e inquietudine esistenziale

L’Étranger di Ozon non conquista tutti, dal momento che la sua compostezza, lentezza calcolata, raffinatezza formale e assenza di compromessi affettivi rappresentano un ostacolo per alcuni spettatori. Tuttavia, questi elementi fanno parte di un progetto artistico consapevole, fedele al testo di partenza e profondamente rispettoso della sua complessa stratificazione.

Ozon non traduce semplicemente L’Étranger per immagini, ma ne coglie l’anima, pur con qualche eccesso di misura stilistica, trasmettendo l’inquietudine e il vuoto del protagonista. È un film che non consola, non seduce, non spiega: interroga con la lucidità scomoda di chi non cerca verità rassicuranti, ma costringe a sostare, nudi, di fronte all’assurdo.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

7


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