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Łukasz Żal e la visione della morte: il realismo magico di Hamnet

Łukasz Żal racconta Hamnet con un realismo magico, dove morte, natura e emozioni diventano poesia visiva sul grande schermo.

Nel portare sullo schermo Hamnet di Maggie O’Farrell, Chloé Zhao ha scelto una sensibilità visiva unica come quella di Łukasz Żal. Il direttore della fotografia polacco, noto per l’austerità poetica di Ida e Cold War e per l’esperimento percettivo di The Zone of Interest, costruisce qui un’immagine che unisce realismo, intuizione e una forma sottile di magia.

Il film, nelle sale italiane dal 5 febbraio 2026 con Universal Pictures, diventa così non solo una trasposizione del romanzo, ma una meditazione sul tempo, sugli affetti e sulla presenza costante della morte.

Qui la Recensione: Hamnet, la recensione: quando il dolore diventa arte e memoria

Fin dal loro incontro, Zhao e Żal, come riportato da AwardsWatch, hanno riconosciuto nella voce onnisciente del libro un elemento da tradurre in cinema. Quel punto di vista che osserva più dei personaggi e li abbraccia senza giudicarli diventa la base del linguaggio visivo del film. Ne nasce uno sguardo ampio, osservativo, che rinuncia all’enfasi drammatica per richiamare la pittura britannica del XVI e XVII secolo: scene quotidiane colte con calma, figure immerse nel proprio ambiente più che isolate dal mondo che le circonda.

Żal trova nel romanzo un terreno personale: l’amore, la perdita, la fragilità, la relazione tra maschile e femminile. Leggendo Hamnet, immagina subito momenti e sensazioni: la corsa del bambino in una casa che improvvisamente sembra troppo piccola; l’intuizione di Agnes che riconosce in Will un dolore che lui stesso non sa esprimere; la presenza di qualcosa che aleggia e si prepara a rivelarsi. Il film cerca di catturare proprio queste percezioni, ciò che ancora non ha forma ma già pesa sui personaggi.

Una scelta forte è il contrasto visivo tra Will e Agnes. Will è chiuso in spazi stretti, compresso da lenti lunghe e da una luce trattenuta. Agnes, invece, appartiene alla foresta: lenti ampie, colori profondi e spazi che respirano riflettono la sua libertà interiore, tanto che il film abbandona il formato 4:3 per lasciarla muovere senza costrizioni.

Il paesaggio sonoro, creato ancora una volta con Johnnie Burn, amplia questo lavoro. Il film è circondato da ciò che non si vede: rumori lontani, presenze fuori campo, suoni che allargano l’inquadratura e suggeriscono un mondo più grande, come già accadeva in The Zone of Interest. Il suono non accompagna: evoca e anticipa.

L’idea più audace è trasformare la camera in un personaggio, una presenza che osserva la vita dei protagonisti: la morte stessa. Una telecamera dedicata, con movimenti lenti e quasi fluttuanti, li segue come un’ombra che aspetta. Quando Hamnet guarda direttamente nell’obiettivo, non rompe la finzione: incontra lo sguardo di questa presenza. È un gesto semplice, ma carico di destino.

Molto nasce anche dall’improvvisazione sul set. Le immagini di Hamnet attraverso la grande tela del Globe Theatre, con quel velo che sembra separare i vivi dall’altrove, derivano da un’intuizione nata grazie a una foto scattata sul momento. Sono scoperte che arricchiscono il film di un realismo magico che non ha bisogno di effetti, ma di sguardi.

Il risultato è un’opera che intreccia morte, natura e memoria con una grazia discreta. Zhao e Żal restituiscono anche la meraviglia del teatro elisabettiano, capace di incantare e trasformare chi lo guarda. Hamnet diventa così un racconto visivo sulla fragilità dell’esistenza e sulla forza dei legami che resistono al tempo.

Ora che il film è finito, Żal torna alle sue fonti d’ispirazione: cinema, arte, letteratura. E Hamnet resta come una delle sue opere più intime, un’indagine sulle presenze silenziose che accompagnano ogni vita.


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