Conchiglia sul computer

Marcel the Shell, recensione: il guscio con le scarpe

Nell’attuale momento di crisi del cinema, inteso come luogo fisico di condivisione e come arte che nelle sue forme mainstream non sa più parlare un linguaggio universale, c’è un genere cinematografico specifico che riesce a sopravvivere anno dopo anno senza perdere lustro: i film d’animazione.

“Marcel the Shell” è un titolo che potrebbe sembrare nuovo ma che ad alcuni potrebbe ricordare qualcosa. Questo perché nel 2010 il regista e autore Dean Fleischer Camp aveva già spopolato su YouTube grazie a una serie di cortometraggi in stop-motion che raccontavano la storia di Marcel, una conchiglia di mare dotata di un paio di scarpe in miniatura e un solo occhio per guardare il mondo.

Conchiglia con pop corn

Il filmmaker di documentari Dean (“Fleischer Camp”) si trasferisce in un Airbnb per elaborare la fine del suo matrimonio. Nel luogo scopre dell’esistenza di Marcel (Jenny Slate), una piccolissima conchiglia parlante che si aggira per l’appartamento a bordo di una palla da tennis e che qui vive assieme a sua nonna, Nana Connie (Isabella Rossellini). Affascinato dalle attività quotidiane di questa strana coppia, Dean comincia a filmare la loro routine per realizzarne un documentario.

Mentre Marcel passa la maggior parte del proprio tempo a raccogliere oggetti e risorse dal cortile dell’edificio, Nana Connie coltiva il suo orticello insieme agli insetti con cui ha stretto amicizia. Quando Dean carica il primo video di Marcel su Internet questo diventa un fenomeno che spopola rapidamente: gli unici a non poter assistere sono i genitori di Marcel e tutta la sua famiglia, scomparsa anni prima durante un litigio della coppia che viveva nell’appartamento prima di Dean. Le cose per Marcel e Nana Connie sono destinate a cambiare quando un altro personaggio s’interesserà alla loro storia e darà loro voce.

Una storia in miniatura fra realtà e finzione

piccola conchiglia con un cerotto

Riprendendo la stessa formula del mockumentary che ha reso celebri i suoi cortometraggi, il regista racconta una storia in miniatura avvalendosi del cortocircuito fra realtà e finzione. Fleischer-Camp è se stesso, il regista che metterà in scena la vita di questa bizzarra e dolce creatura alta qualche millimetro, prima su YouTube (come i primi esperimenti che hanno dato vita al personaggio undici anni fa) e poi tramite il documentario con cui si cerca di restituire gli attimi più autentici della vita quotidiana insieme a ciò che rimane della sua famiglia.

Jenny Slate torna come co-sceneggiatrice (insieme a Nick Paley) e come voce spezzata del fragile protagonista dalle scarpe arancioni, conferendo un’estensione umana a ciò che umano non lo è ma che è specchio della bontà di spirito di chi è dietro la macchina da presa: regista e personaggio si confrontano, ridendo e scherzando ma anche invitandosi reciprocamente all’apertura con l’altro, come fossero amici di lunga data o fratelli, più che padre e figlio. È un rapporto alla pari in cui la comunicazione è, oltre che continua, atta a verificare emozioni e sentimenti dell’altro, o a scoprire un passato che fatica a emergere dalla rimozione traumatica.

L’operazione di Fleischer-Camp è talmente radicale che il peso della realtà passa in secondo piano rispetto al valore della verità. E la verità è quella che riguarda il dolore represso. Con il progredire della narrazione è sempre più chiaro che l’amabile Marcel non è solo un ninnolo e che all’interno del suo guscio preservi una dimensione vivente ricca di sfumature e di esperienze passate, di timori che aspettano di trasformarsi in desideri.

È una sfida non da poco, ma del tutto riuscita quella di Fleischer-Camp, che nella stop-motion ritrova (come Del Toro con il suo “Pinocchio”) il linguaggio ideale messo a disposizione dalle possibilità dell’animazione per ritrovare la tangibilità delle cose e accorciare la distanza fra spettatore e personaggio.

Ed è un linguaggio funzionale a descrivere una traiettoria universale: quella che ci deve guidare all’apertura verso il mondo (ed è qui che il film diventa anche una metafora commovente sullo shock collettivo del lockdown), ma anche quella che porta a voler restaurare e poi salvaguardare le radici che ci vincolano a un passato e a una comunità, il legame con un tutto che definisce la nostra identità e ci permette, infine, di compiere il primo passo verso il futuro.    

Leggi anche: Gli Spiriti dell’Isola – Recensione: in attesa della morte

© Riproduzione Riservata 

Federica Cremonini

Il Voto della Redazione:

7


Pubblicato

in

da

Tag: