Alcune curiosità su Marie Antoniette diretto da Sofia Coppila, il diario diviso di una regina adolescente.
Uscito nel 2006 e liberamente ispirato alla biografia Maria Antonietta – La solitudine di una regina di Antonia Fraser, Marie Antoinette di Sofia Coppola non è un film storico in senso tradizionale, ma un ritratto personale, audace e profondamente sensibile della figura della giovane sovrana francese. Lontano dai toni solenni delle biografie cinematografiche classiche, il film si configura come un’opera intimista, emotiva e stilisticamente anticonvenzionale, capace di restituire allo spettatore una Maria Antonietta fragile, spaesata e sorprendentemente contemporanea.
Attraverso una messa in scena sontuosa ma antirealistica, una colonna sonora anacronistica che mescola new wave e rock alternativo, e una scelta registica che predilige l’impressione al documento, la Coppola riscrive la storia da un punto di vista femminile, giovanile e psicologico. Ne emerge un racconto di formazione immerso in un universo di abiti barocchi, dolci color pastello e silenzi carichi di malinconia, dove la regina non è che un’adolescente travolta da un ruolo troppo grande. Un film che ha diviso la critica al momento della sua uscita, ma che oggi viene riconosciuto come un’opera pionieristica, capace di parlare – con grazia e potenza – di identità, solitudine e prigionia emotiva.
Una colonna sonora anacronistica e pop – Il potere della dissonanza emotiva
La scelta musicale non fu casuale, ma frutto di una ricerca molto personale della regista amante della scena alternativa anni ’80. I brani di artisti come The Strokes e Aphex Twin, accanto a quelli più noti dei Gang of Four, servono a farci sentire dentro la testa di Maria Antonietta. Le canzoni funzionano come diario sonoro di un’adolescente alla deriva e non seguono la cronologia storica ma la traiettoria emotiva della protagonista. Questo uso anticonvenzionale del sonoro ha anticipato una tendenza oggi molto comune nelle serie TV e nel cinema indie. Alcune delle musiche originali inoltre sono state composte da Air, il duo elettronico francese, che hanno contribuito così a creare l’atmosfera rarefatta e sospesa.
Girato davvero a Versailles – Un set impossibile
Poter girare a Versailles non è solo una questione di permessi: richiede un adattamento logistico enorme, la troupe ha infatti dovuto lavorare in modo silenzioso senza interferire con i turisti o danneggiare gli ambienti. Le riprese si sono svolte in parte di notte e con attrezzature leggere, limitando l’uso di luci artificiali per non compromettere gli interni, e alcune scene sono state girate anche nella Petite Trianon, il rifugio personale di Maria Antonietta, che Coppola ha scelto per sottolineare l’aspetto più privato e vulnerabile del personaggio. Ogni angolo girato nella vera reggia amplifica il senso di sontuosità irreale, come se la giovane regina vivesse dentro una favola che lentamente si trasforma in incubo.
Non una biografia, ma un’opera di sentimento – L’intimità come rivoluzione
Sofia Coppola ha dichiarato di essersi ispirata più ai diari e alle lettere di Maria Antonietta che ai resoconti ufficiali. Questo approccio emotivo, quasi diaristico, rende il film affine a un romanzo di formazione in chiave femminile. Il riferimento principale è la biografia di Antonia Fraser, “Marie Antoinette: The Journey”, da cui il film prende spunto, ma la Coppola elimina deliberatamente le date e i dettagli politici per raccontare come ci si sentiva, non cosa è successo. Il film è stato anche definito un esempio di “female gaze” cinematografico, in contrasto con la tradizionale visione maschile e storicista della figura regale.
Scarpe firmate Manolo Blahnik (e un paio di Converse rosa) – Moda come linguaggio psicologico
Milena Canonero ha studiato dipinti, incisioni e documenti dell’epoca, ma li ha reinterpretati come una stilista moderna. I costumi riflettono gli stati d’animo più che la cronaca storica. I colori pastello predominano nelle prime fasi, quando Maria Antonietta è ancora ingenua; diventano più scuri e sobri man mano che cresce e si isola. Il paio di Converse rosa, che si vede per pochi secondi, non è solo un vezzo metacinematografico: è un manifesto del film, un invito a leggere la storia con occhi contemporanei. Le scarpe di Manolo Blahnik venivano realizzate a mano, con sete rare e dettagli autentici, ispirandosi anche alle tendenze punk-rock per le linee più audaci.
Nessuna ghigliottina, solo malinconia – Il silenzio come scelta politica
Invece della decapitazione, la Coppola opta per un finale simbolico. La scelta non è solo estetica, ma profondamente politica: evitare la violenza significa respingere lo sguardo voyeristico tipico del cinema storico. L’ultima scena richiama il mito della “fuga da Varennes”, ma non lo rappresenta: Coppola crea una fine poetica e dolente, in cui la protagonista si allontana da uno spazio irreale, ormai consumato. Il messaggio è chiaro: l’importante non è come è morta, ma chi è stata davvero.
Kirsten Dunst, scelta senza audizioni – Un’alchimia creativa rara
Kirsten Dunst ha lavorato sul ruolo ispirandosi a figure moderne come Britney Spears o Paris Hilton, per comprendere cosa significa essere esposta al giudizio pubblico sin da giovane. Coppola le ha chiesto di evitare ogni tipo di accento finto o recitazione teatrale. L’effetto è una recitazione estremamente naturale, quasi sussurrata, che contrasta con il gigantismo della scenografia. Dunst ha anche partecipato ad alcune scelte estetiche, collaborando con la regista e la costumista nella definizione del look.
Una regina adolescente – La favola di una principessa prigioniera
Maria Antonietta, nel film, non è colpevole ma inadeguata, ed è questo che la rende umana, l’opulenza non è mai mostrata come glamour, ma come peso, e le feste, le torte e i giochi sono antidoti contro l’angoscia. La Coppola filma tutto con uno sguardo misto di ammirazione e pena. I riferimenti alla cultura adolescenziale americana sono evidenti: i comportamenti di Maria ricordano quelli di una liceale, con dinamiche da “mean girls” nella corte e atteggiamenti da teen idol nei momenti di ribellione.
Riconoscimenti e rivalutazione critica – Dal flop di Cannes al culto globale
Alla prima di Cannes del 2006, il film fu accolto da fischi e applausi tiepidi: fu considerato “superficiale” e troppo distante dalla verità storica. Oggi viene invece letto come un film in anticipo sui tempi, capace di parlare di ansia, iper-esposizione mediatica e solitudine femminile con una forma visiva originale. È stato rivalutato anche in ambito accademico, citato in saggi di gender studies, fashion studies e film studies. La stessa regista ha raccontato come quel rifiuto iniziale l’avesse ferita, ma anche rafforzata nella convinzione di aver realizzato qualcosa di unico.
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Emanuela Giuliani