Monster: La storia di Ed Gein, la recensione del nuovo capitolo della serie antologica di Ryan Murphy e Ian Brennan.
Cosa siamo disposti a vedere davvero quando guardiamo l’orrore in faccia? Una domanda tagliente, che la serie Monster: La storia di Ed Gein, nuovo agghiacciante capitolo dell’antologia true crime ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, disponibile su Netflix dal 3 ottobre 2025, lancia sfidando lo spettatore a confrontarsi con il male senza filtri né consolazioni.
Al centro, la figura disturbante di Ed Gein, il criminale che negli anni ’50 sconvolse Plainfield, Wisconsin, con omicidi, profanazioni di tombe e oggetti realizzati con resti umani. Un caso che ha segnato l’immaginario collettivo, ispirando icone dell’horror come Norman Bates e Buffalo Bill.
La serie non si limita a raccontare i fatti, ma indaga a fondo il contesto che ha generato il “mostro”: l’influenza opprimente della madre, l’isolamento sociale, la repressione e il fanatismo religioso. Il racconto si trasforma così in un’indagine sul male, non solo individuale ma collettivo — quello che continua ad attrarci e che, nel guardarlo, ci mette di fronte anche a noi stessi.
Ed Gein, l’uomo dietro il mostro
Nella memoria americana, pochi nomi evocano un orrore tanto profondo quanto il suo. Ma prima che diventasse un’icona dell’incubo, chi era quest’uomo?
Nato nel 1906 in una remota zona del Wisconsin, Ed Gein crebbe sotto il dominio di una madre fanatica e ossessiva, Augusta, che gli trasmise una visione malata del mondo: il peccato ovunque, la corruzione morale nelle donne, la dannazione come unica prospettiva. Il padre, alcolizzato e assente, fu solo una figura sfumata. Dopo la misteriosa morte del fratello e, soprattutto, dopo la scomparsa della madre, Gein rimase solo — e la sua psiche si frantumò.
Fu allora che iniziò la discesa nella follia: Gein cominciò a profanare tombe e raccogliere resti umani per un unico scopo ossessivo — riportare in vita sua madre, o almeno ricrearne una presenza fisica. La sua casa divenne un vero e proprio museo dell’orrore, fatto di pelle, ossa e oggetti macabramente ricavati dai corpi riesumati.
Non uccideva per sadismo o vendetta: i due omicidi accertati sembrano piuttosto episodi di una psicopatologia più profonda, radicata nel bisogno disperato di negare la morte e ricostruire il legame con la madre.
Ed Gein ha segnato l’immaginario collettivo ben oltre la cronaca nera. La sua figura ha ispirato personaggi come Norman Bates (Psycho), Leatherface (Non aprite quella porta) e Buffalo Bill (Il silenzio degli innocenti). In lui convivono il volto dell’uomo qualunque e quello del mostro: un vicino di casa taciturno e gentile, ma capace di azioni inimmaginabili.
Questa ambiguità è ciò che lo rende così disturbante: Gein non era un mostro mitologico, ma una presenza inquietante nascosta nella normalità. La sua storia è una grottesca tragedia americana fatta di solitudine, trauma e delirio.
A decenni di distanza, il suo nome continua a turbare non solo per l’orrore dei suoi atti, ma per ciò che rappresenta: l’idea che il male possa abitare accanto a noi, nascosto dietro un volto qualunque, pronto a emergere tra le crepe della quotidianità. Ed è forse proprio questo il suo lascito più inquietante.
Un’analisi attenta del male
Ciò che distingue Monster: La storia di Ed Gein da molti altri adattamenti è lo sguardo lucido e riflessivo. La serie non cerca di scioccare con immagini gratuite, né indulge nel macabro fine a sé stesso. Al contrario, si muove con passo lento e inesorabile dentro una domanda scomoda: perché? Perché un uomo solo, isolato dal mondo, ha trasformato il dolore in orrore? Perché nessuno ha visto, nessuno ha fermato, nessuno ha curato? Monster non offre risposte semplici: esplora il vuoto in cui il lutto diventa ossessione e l’ossessione si fa carne. Il tono è quasi clinico, ma non freddo e la narrazione non giustifica, ma cerca di capire.
Charlie Hunnam offre un’interpretazione sorprendente di Ed Gein, fatta di silenzi, rigidità, vuoti. Il suo volto immobile sembra bloccato nel tempo, come la sua mente. Non è il classico “mostro” da cronaca nera, ma un uomo rimasto bambino, incapace di elaborare la perdita, schiacciato dall’ombra materna. La sua follia non esplode: si insinua nella routine, trasfigura la quotidianità, rendendo ogni gesto un riflesso disturbante del suo mondo interiore.
Murphy e Brennan costruiscono più di una semplice biografia nera offrendo una riflessione sul modo in cui il cinema ha assorbito e trasformato l’orrore reale, ricordando che Gein ha ispirato Psycho, e mostrando come quella ispirazione sia diventata un modello narrativo, una grammatica visiva. Guardare l’orrore sullo schermo è diventato un atto familiare, persino rassicurante. Ma cosa accade quando l’orrore è reale?
Al centro della serie c’è la simbiosi morbosa tra madre e figlio. Augusta Gein non è solo una figura dominante, ma un universo totalizzante, il suo amore è controllo, il suo affetto è annullamento. Dopo la sua morte, Ed non sente il vuoto: sente la necessità insaziabile di riportarla indietro, anche solo attraverso simulacri di pelle cucita e ossa sbiancate.
Altro tema centrale è la sessualità repressa, in Ed Gein il desiderio non trova sfogo. Cresciuto in un ambiente dove ogni impulso era peccato, finisce per esprimersi attraverso rituali grotteschi: indossare la pelle delle donne morte, ricreare un corpo materno con cui fondersi. La violenza non è solo fisica: è simbolica, è un grido di impotenza, un disperato tentativo di possedere ciò che gli è sempre stato negato.
Monster riflette anche sul potere delle immagini. Ogni adattamento della sua storia ha aggiunto uno strato alla mitologia di Gein, fino a rendere indistinguibile l’uomo dal personaggio. Il racconto spettacolarizzato ha trasformato un individuo disturbato in un’icona horror, ma questo processo non riguarda solo i media: coinvolge anche lo spettatore.
La serie, infatti, punta il dito verso chi guarda, con il pubblico che non è mai neutrale. Ogni sguardo che si posa sull’orrore, ogni attenzione morbosa, contribuisce a mantenerlo vivo. Monster non lo dice apertamente, ma lo suggerisce con forza: non stiamo solo osservando un mostro, stiamo osservando noi stessi, la nostra attrazione per il male, il nostro bisogno di trasformarlo in intrattenimento.
Monster oltre ad essere una serie su Ed Gein è anche una considerazione su come personaggi del genere vengano costruiti, alimentati e consumati, e su come, ogni volta che trasformiamo il dolore in spettacolo, continuiamo, in forme nuove, a creare nuovi Gein.
Un viaggio nel dolore e nell’ossessione americana
Monster: La storia di Ed Gein è prima di tutto una radiografia del cuore oscuro dell’America degli anni ’50, un’epoca spesso idealizzata come simbolo di ordine, prosperità e sogno americano. Ma dietro i sorrisi perfetti, i prati curati e il consumismo crescente, la serie scava per mostrare un’altra realtà: una società ipocrita, sessualmente repressa, intollerante verso tutto ciò che devia dalla norma.
In quest’America “impeccabile”, la malattia mentale viene ignorata, i disadattati derisi o nascosti, e le campagne, idealizzate come rifugi di autenticità, si rivelano invece prigioni isolate dove il disagio cresce senza controllo. Monster mostra come Ed Gein non sia un’eccezione, ma il prodotto di un sistema che nega il trauma, reprime il dolore e trasforma l’orrore in mito. Quando la sua storia emerge, l’America preferisce mitizzarlo, distillare l’orrore in linguaggio cinematografico e addomesticarlo tramite l’estetica del terrore. Il mostro nasce più nella narrazione che nei fatti.
La serie affronta questa dinamica con coraggio, inserendo nel racconto figure legate al mondo dei media e del cinema. Tra queste spicca un fittizio Tobe Hooper, regista di Non aprite quella porta, che pronuncia una battuta tagliente: “Non farò il film che questo paese vuole. Farò il film che merita. Lo hanno creato loro, il mostro. La bruttezza, la violenza, la crudeltà… è tutta roba americana.” È una dichiarazione d’intenti e una condanna insieme, una verità scomoda che la serie rilancia allo spettatore: l’orrore non è un corpo estraneo alla cultura americana, ma ne è un prodotto.
Dal punto di vista tecnico, Monster è costruita con rigore formale e coerenza stilistica. La regia adotta un linguaggio sobrio, lontano dall’horror spettacolare: niente colpi di scena o sangue gratuito. La tensione nasce dalla lentezza, dai silenzi e dai dettagli quotidiani, richiamando l’atmosfera di Mindhunter, dove l’orrore si annida nella psiche più che nella superficie.
Girata in pellicola 16mm, la serie ha un’estetica grezza e polverosa, simile a un documentario d’archivio. La grana dell’immagine, la luce naturale e le inquadrature strette restituiscono una Plainfield rurale, malinconica e sospesa nel tempo. La casa di Gein sembra un organismo vivo, intriso della sua follia. Ogni dettaglio, dai mobili consumati alla carta da parati scrostata, racconta solitudine, abbandono e ossessione.
Il cuore emotivo della serie è Charlie Hunnam, che interpreta Ed Gein con una delicatezza sorprendente, il suo Gein non è carismatico né minaccioso, ma un uomo svuotato, fragile, divorato dal silenzio, ogni suo sguardo perso e gesto esitante trasmettono un dolore profondo e inarticolato.
Accanto a lui, Laurie Metcalf che interpreta Augusta Gein è una presenza inquietante anche quando assente. La sua voce risuona nei pensieri del figlio come un’eco velenosa. Augusta è più di una madre oppressiva: è una figura divina e distruttiva, il cui amore soffoca invece di nutrire. Il loro legame, patologico e indissolubile, è l’asse portante della serie, che da semplice racconto dell’orrore si trasforma in una tragedia profondamente umana.
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Il male come specchio
In definitiva, Monster: La storia di Ed Gein è uno specchio scuro, deformante, che riflette non solo il volto del mostro, ma anche quello di chi lo osserva. È un racconto che ti scruta mentre lo guardi, che ti interroga senza offrire risposte comode, che ti mette a disagio non per ciò che mostra, ma per ciò che rivela di te, spettatore.
La narrazione agisce come una lente crudele puntata sul nostro bisogno di guardare, di essere affascinati, persino intrattenuti dall’abisso, ricordandoci che l’orrore non ha sempre bisogno di sangue, urla o mostri armati di motosega, ma a volte è silenzioso, domestico, nascosto tra le crepe di una parete scrostata o nel fruscio di una voce che non c’è più. Il male può abitare nella routine, nell’isolamento, nella negazione del dolore.
Ma ciò che Monster sottolinea con maggiore forza è la responsabilità del racconto: come l’arte, il cinema e la narrazione non si limitino a rappresentare la realtà, ma partecipino attivamente alla costruzione dei nostri miti, dei nostri incubi collettivi. Ed Gein non è solo un soggetto: è un prodotto, e la vera domanda, alla fine, non è più “Perché l’ha fatto?”, ma: “Perché continuiamo a guardare… e a voler vedere ancora?”
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Emanuela Giuliani
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