My Fair Lady, l’eleganza del linguaggio e il potere della trasformazione nell’iconico film del 1964 con protagonista Audrey Hepburn.
Tratto dall’omonimo musical di Broadway del 1956, scritto da Alan Jay Lerner (testi) e Frederick Loewe (musiche), ispirato alla celebre commedia Pigmalione di George Bernard Shaw, My Fair Lady è la raffinata trasposizione cinematografica diretta da George Cukor uscita nel 1964, e affronta con intelligenza e spirito critico temi come il classismo, il linguaggio e l’identità personale, intrecciando con maestria questi argomenti in una narrazione che si rivela straordinariamente moderna e attuale.
Ambientato nella Londra edoardiana, il film ruota attorno alla figura di Eliza Doolittle, una giovane fioraia dalle umili origini e dal marcato accento cockney, che la esclude dalla buona società. Ma quando il professor Henry Higgins, un linguista brillante ma altezzoso, scommette con il colonnello Pickering di riuscire a trasformarla in una “vera dama” semplicemente insegnandole a parlare correttamente, Eliza accetta la sfida, sperando di migliorare la sua posizione sociale. E così quello che inizialmente sembra un esperimento linguistico diventa ben presto un percorso di crescita profonda per Eliza e Higgins, con il loro rapporto che metterà in discussione i pregiudizi sociali, le dinamiche di potere e, soprattutto, il concetto di amore e libertà personale.
Visivamente impeccabile, My Fair Lady offre una riflessione profonda e tutt’altro che superficiale sulla società e sul potere delle parole, il linguaggio, infatti, non è solo uno strumento di comunicazione, ma un passaporto sociale: parlare “bene” diventa la chiave per accedere a un mondo elitario indipendentemente dal valore umano o morale della persona. Durante la vicenda, Eliza non solo si emancipa socialmente, ma cresce anche sul piano intellettuale ed emotivo rifiutando di essere la semplice “creatura” plasmata dall’esperimento di Higgins, e rivendicando la propria dignità e indipendenza.
Il film rielabora e sovverte con intelligenza il mito di Pigmalione, l’uomo che crea la donna ideale a sua immagine attraverso una lettura sorprendentemente moderna e femminista. Eliza, di fatto, rifiuta l’idea di essere una figura passiva, definita dagli altri, e sceglie di affermare la propria identità trasformando il suo percorso in una dichiarazione di autonomia e consapevolezza.
La straordinaria Audrey Hepburn interpreta Eliza con una performance intensa e sfaccettata, nonostante la sua voce sia stata sostituita in studio dal soprano Marni Nixon, celebre “ghost singer” dell’epoca. Interessante è anche la curiosità legata al casting: nel musical teatrale originale, il ruolo di Eliza fu interpretato da Julie Andrews, che riscosse un enorme successo a Broadway, tuttavia, per il film, la produzione scelse Audrey Hepburn, più famosa al grande pubblico. Ironia della sorte, nel medesimo anno la Andrews vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista per Mary Poppins, mentre la Hepburn non ottenne nemmeno una nomination.
Il ruolo del professor Higgins fu invece affidato a Rex Harrison, che lo aveva già interpretato a teatro, e la sua performance sul grande schermo rimase memorabile per il suo stile unico, un mix di canto parlato che divenne il suo marchio di fabbrica.
Vale la pena notare che George Bernard Shaw, autore di Pigmalione, si oppose per lungo tempo a qualsiasi adattamento musicale della sua opera, temendo che si perdesse l’essenza originale. Nonostante ciò, My Fair Lady è riuscito a mantenere intatta l’anima satirica del testo, arricchendola con la magia delle canzoni e il linguaggio cinematografico. Alcuni dei brani più celebri del film, come I Could Have Danced All Night, Wouldn’t It Be Loverly, On the Street Where You Live e The Rain in Spain, sono diventati veri e propri classici del repertorio musicale, apprezzati per la loro capacità di esprimere i sentimenti dei personaggi con una combinazione unica di leggerezza, ironia e profondità emotiva.
Oggi, My Fair Lady resta una delle opere più significative del cinema musicale, capace di incantare il pubblico con la sua eleganza, la sua intelligenza e il messaggio sempre attuale riguardante l’identità, il linguaggio e la trasformazione personale. Al di là delle scenografie sontuose e delle melodie indimenticabili, il film tocca corde emotive profonde, interrogandosi sul valore dell’individuo al di là delle convenzioni sociali e sull’importanza del linguaggio come strumento di emancipazione.
Eliza Doolittle non è solo una fioraia trasformata in dama, ma diventa il simbolo di ogni individuo che lotta per affermarsi in un mondo che tende a incasellarlo in base a pregiudizi o apparenze. La sua storia di riscatto, al contempo ironica e commovente, ci ricorda che la vera eleganza non risiede nell’aspetto esteriore, ma nella padronanza di sé, nella consapevolezza e nella libertà di scegliere chi vogliamo diventare. Trasformazione consapevole in cui My Fair Lady trova la sua forza più duratura combinando intrattenimento e riflessione in un equilibrio raro e prezioso, che continua a parlare anche alle generazioni contemporanee.
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Emanuela Giuliani