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Norimberga, la recensione: il peso della giustizia e del male

Norimberga esplora il processo ai gerarchi nazisti, tra giustizia, responsabilità morale e il confronto psicologico tra Kelley e Göring.

Quando la legge si confronta con il male, ogni scelta pesa. Questo è il punto di partenza di Norimberga, dramma storico scritto e diretto da James Vanderbilt e tratto dal libro di Jack El-Hai, che dopo aver chiuso il 43° Torino Film Festival, arriverà nelle sul grande schermo il 18 dicembre e distribuito da Eagle Pictures. Il film guida lo spettatore nel cuore oscuro del dopoguerra, mostrando i meccanismi più complessi della mente umana e il delicato equilibrio tra potere, etica e malvagità.

Ambientato nel 1945, subito dopo la Seconda guerra mondiale, il film prende come sfondo il processo di Norimberga, in cui 24 gerarchi nazisti, tra cui Hermann Göring, braccio destro di Hitler, furono chiamati a rispondere delle loro brutali azioni. Per la prima volta furono definiti “crimini contro l’umanità”, tracciando un modello giuridico e morale destinato a segnare un nuovo corso della storia.

Il fulcro della vicenda è il confronto tra il tenente colonnello Douglas Kelley, psichiatra dell’esercito americano incaricato di valutare la sanità mentale degli imputati, e Göring. Si tratta di una sfida psicologica intensa e rischiosa, con Kelley determinato a far crollare il gerarca nazista, convinto che se lui cadesse, anche gli altri ne avrebbero subito le conseguenze.

Lo scontro tra coscienza e manipolazione

Indagando la natura del male e il dovere etico individuale, Norimberga solleva interrogativi universali: fino a che punto un individuo è responsabile delle proprie azioni quando obbedisce agli ordini? Esiste un confine tra follia, ambizione e crudeltà, o la violenza può manifestarsi in forme subdole e apparentemente giustificate?

Queste domande emergono con forza nel delicato confronto tra Kelley e Göring. Quest’ultimo non appare mai come un mostro irrazionale, ma come un uomo lucido, carismatico e persuasivo, capace di ammaliare con argomentazioni logiche che nascondono la ferocia dei suoi crimini. La sua violenza non è mai diretta, ma si manifesta attraverso fascino e manipolazione, mostrando quanto possa essere insidiosa.

Kelley, pur mantenendo un approccio scientifico, finisce per subirne l’influenza, dimostrando quanto sia complesso preservare la stabilità mentale di fronte a figure così sicure di sé e abilissime nel controllo psicologico. La dinamica tra i due conferma che comprendere il male non è solo un esercizio intellettuale, ma richiede coraggio emotivo per affrontare paure e ambiguità morali senza soccombere. Il film invita a riflettere su un tema sempre attuale: quanto è fragile la coscienza di fronte al carisma e all’autorità, e quanto sia facile banalizzare la violenza quando si cela dietro un’apparente normalità.

Memoria e responsabilità

In Norimberga emerge anche l’importanza della memoria storica: ricordare non significa annotare solo i fatti, ma comprendere le condizioni sociali, politiche e psicologiche che rendono possibile la violenza. Il film mette in luce le tensioni tra legge e giudizio, vittima e carnefice, ricordo e oblio, mostrando come il processo possa diventare uno strumento di riflessione e prevenzione. La storia dei crimini nazisti deve educare le generazioni future e prevenire il ripetersi di tragedie simili, e la memoria non è un atto passivo, ma una responsabilità attiva che richiede attenzione, comprensione e discernimento.

Definendo per la prima volta i crimini contro l’umanità e stabilendo principi riconosciuti a livello globale, il processo di Norimberga ha rappresentato una svolta per il diritto internazionale. Il suo messaggio resta oggi fondamentale: violenza sistemica, ingiustizie e malvagità strutturale non possono essere ignorate o giustificate, e ogni individuo ha un ruolo nel prevenirle.

Volti forti, ritmo debole

Tra i punti di forza del film spiccano senza dubbio le interpretazioni. Russell Crowe dà vita a un Göring complesso e inquietante, capace di passare con naturalezza dalla sicurezza ostentata alla manipolazione sottile, senza mai scivolare nella caricatura. Rami Malek, pur non raggiungendo la stessa intensità di Crowe, offre una prova misurata, alternando calma analitica a momenti di vulnerabilità che rivelano il peso psicologico della responsabilità del suo personaggio.

Ad affiancarli c’è un Michael Shannon estremamente convincente nel conferire al giudice Robert H. Jackson quella solidità che ne mette in risalto tanto l’autorevolezza quanto le esitazioni più intime. Accanto a lui, Leo Woodall tratteggia con misura il sergente Howie Triest, mentre Richard E. Grant indossa con naturale eleganza i panni del procuratore inglese Sir David Maxwell Fyfe. A chiudere il quadro, John Slattery conferisce al comandante del carcere, Burton C. Andrus, un equilibrio efficace di rigore e presenza scenica.

A penalizzare la visione però, sono il ritmo e la durata: le 2 ore e 28 minuti disperdono spesso la tensione invece di sostenerla, mentre la struttura narrativa, troppo analitica, privilegia l’osservazione a scapito del coinvolgimento, trasformando sequenze potenzialmente incisive in momenti meno memorabili. Dialoghi intensi ma prolissi e scene dilatate rallentano lo sviluppo della trama, mentre l’integrazione tra filmati reali e immagini in bianco e nero crea più una frattura visiva che un arricchimento.

La tensione drammatica, pur ben costruita in alcuni passaggi, non si mantiene costante: le digressioni psicologiche, pur stimolanti, diventano ripetitive, affievolendo l’impatto complessivo e compromettendo l’immersione dello spettatore. Il risultato è un film ricco di spunti e ambizione, ma talvolta gravoso e meno incisivo di quanto il tema meriterebbe.

Lezioni dal passato

Norimberga affronta con coraggio uno dei capitoli più oscuri del Novecento, interrogando lo spettatore sulla natura del male, sulla responsabilità personale e sull’inquietante fascino dell’autorità. Eppure, nonostante stimoli la riflessione sulla fragilità della coscienza di fronte alla manipolazione e sull’importanza di mantenere viva la memoria per evitare che il passato si ripeta, trovando il suo punto di forza nel confronto tra Kelley e Göring, il film perde la sua efficacia a causa di un ritmo irregolare e di una narrazione che ne limita l’empatia.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

6


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