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Portobello di Marco Bellocchio, la recensione dei primi due episodi: la colpa, l’innocenza e la memoria di un Paese

Portobello, Marco Bellocchio racconta con il suo sguardo lucido e politico, la colpa, l’innocenza e la memoria di un Paese.

Portobello è la nuova serie firmata da Marco Bellocchio, uno dei grandi maestri del cinema italiano, noto per la sua capacità di affrontare con rigore e intensità le fratture della storia nazionale, che con il suo sguardo lucido e profondamente politico torna a confrontarsi con uno degli errori giudiziari più clamorosi del Novecento italiano e della memoria collettiva: il caso Enzo Tortora.

Prima produzione originale italiana per HBO Max, Portobello – attesa per il 2026 e presentata Fuori Concorso alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – ricostruisce con sensibilità e precisione le vicende che travolsero il celebre giornalista e conduttore televisivo, uno dei volti più amati dell’inizio degli anni ’80.

Un incubo giudiziario

Intellettuale, raffinato e popolare, Enzo Tortora era l’anima di Portobello, innovativo show di Rai 1 che teneva incollati al piccolo schermo fino a 28 milioni di spettatori. Il programma, un caleidoscopio di umanità, curiosità e solidarietà, conquistò gli italiani al punto che Sandro Pertini gli conferì il titolo di Commendatore della Repubblica. Ma nel 1983 tutto cambiò: il suo nome infatti fu inserito senza spiegazioni tra gli affiliati alla Nuova Camorra Organizzata, su denuncia di Giovanni Pandico, ex uomo di fiducia del boss Cutolo.

Il 17 giugno venne arrestato con l accuse di droga e mafia, basate su testimonianze contraddittorie e errori, e da simbolo della televisione italiana Tortora divenne vittima di un sistema giudiziario fallibile, con mesi di carcere, gogna mediatica e una condanna in primo grado nel 1985. Assolto nel 1987, il danno però era fatto, e colpito da cancro morì nel 1988, lasciando un’eredità morale e un acceso dibattito su giustizia e media.

L’ascesa e il precipizio

Con Portobello, Marco Bellocchio torna a indagare con consapevolezza il delicato equilibrio tra individuo e potere, tra innocenza e colpa, tra realtà e costruzione mediatica, confrontandosi con una ferita aperta della coscienza nazionale e restituendo alla memoria collettiva non soltanto il ritratto di un uomo ingiustamente travolto, ma anche una riflessione più ampia e penetrante su un Paese che troppo spesso dimentica prima ancora di capire.

I primi due episodi confermano la solidità della visione autoriale di Bellocchio, che affronta la vicenda con la medesima tensione etica, politica e narrativa già presente nei suoi lavori più recenti, da Esterno notte a Il traditore. In questa prima parte di Portobello, il regista ricostruisce con precisione e profondità emotiva il contrasto straziante tra la notorietà pubblica e il crollo che travolgerà Enzo Tortora, trasformato da uomo simbolo della TV italiana a vittima sacrificale di un apparato giudiziario difettoso e di un’opinione pubblica manipolabile.

Il primo episodio si apre nel pieno dell’età dell’oro di Tortora. Bellocchio immerge lo spettatore in una rievocazione vivida e a tratti quasi mitologica degli studi televisivi RAI, con le luci, i suoni, e quel pappagallo iconico che da solo richiama un’epoca. La regia alterna con eleganza i momenti pubblici – lo show, l’entusiasmo del pubblico, la gratitudine della gente comune – con scene più intime, domestiche, che mostrano un Tortora uomo prima ancora che personaggio, accompagnato da dubbi, rigore morale e una fragilità che si insinua già nelle pieghe del successo. Il personaggio, interpretato con notevole finezza da Fabrizio Gifuni, non è mai santificato, ma umanamente stratificato.

Il secondo episodio, invece, segna un brusco cambio di tono e atmosfera. L’illuminazione calda e ottimista lascia spazio a colori più cupi, al grigio delle caserme e alla tensione dei corridoi giudiziari, ed è qui che Bellocchio dà pieno respiro alla sua riflessione politica: l’arresto improvviso, lo spaesamento, la reazione mediatica sproporzionata, il circo del sospetto che si nutre di voci e di testimonianze inconsistenti. La scena dell’arresto in albergo è una delle più potenti dell’episodio, asciutta e implacabile, in cui l’assurdo diventa reale senza che nessuno – nemmeno Tortora – riesca a comprenderne fino in fondo il meccanismo della macchina del potere giudiziario e mediatico che si muove con una freddezza implacabile.

Bellocchio non grida alla teoria del complotto, ma mostra piuttosto come l’errore si alimenti di inerzia, automatismi, paura, e superficialità. La scrittura è sobria, ma densa: non c’è retorica, solo un lento accumularsi di dettagli che costruiscono la tragedia, e la scelta di dare spazio anche ai personaggi secondari – magistrati, giornalisti, familiari – rafforza il senso corale del racconto.

La fotografia di Francesco Di Giacomo crea un’atmosfera intensa grazie al contrasto tra luci fredde e ombre, mentre la colonna sonora discreta accompagna delicatamente i momenti drammatici, mentre i costumi e le scenografie ricostruiscono realisticamente l’Italia di quegli anni, con il ritmo equilibrato aiuta a cogliere la complessità psicologica e sociale della storia, mantenendo alta l’attenzione senza eccessi emotivi.

Il peso delle responsabilità

Questi primi due episodi quindi, non si limitano a introdurre la vicenda, ma pongono con grande forza e chiarezza  le domande centrali della serie: che cos’è la verità, e come possiamo riconoscerla in un contesto in cui le informazioni sono frammentate e manipolate? Come può uno Stato che si definisce democratico trasformare un innocente in colpevole senza un equo processo? Qual è il ruolo dell’opinione pubblica e dei media nel determinare il destino di una persona, amplificando giudizi e condanne?

Interrogativi che lasciando intender un racconto che non sarà solo una cronaca degli eventi, ma proverà a fare i conti con le responsabilità collettive di una società.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

8


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