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Primavera, recensione: la musica della libertà nel cuore del Settecento veneziano

Primavera, esordio di Michieletto, celebra musica, libertà e crescita personale, ispirandosi al romanzo Stabat Mater di Tiziano Scarpa.

Dopo aver rivoluzionato il linguaggio della scena teatrale e operistica, Damiano Michieletto debutta alla regia cinematografica con Primavera, un affresco storico-musicale intriso di poesia, emozione e cura visiva. Distribuito nei cinema da Warner Bros Pictures dal 25 dicembre 2025, il film si ispira liberamente all’opera letteraria Stabat Mater di Tiziano Scarpa (Premio Strega 2009), celebre per la sua scrittura lirica e per la capacità di intrecciare vicende storiche a riflessioni intime sui sentimenti e sulla musica.

L’opera letteraria racconta la vita delle orfane dell’Ospedale della Pietà e della loro orchestra in una Venezia barocca, le cui atmosfere vengono trasposte da Michieletto sullo schermo con grande sensibilità, conservando la forza emotiva dei personaggi, facendo della musica un simbolo di libertà, e della città il teatro di un conflitto silenzioso: quello tra regole e desideri, tra disciplina e pulsioni, tra ciò che la società impone e ciò che l’anima reclama.

Al centro della storia c’è Cecilia (Tecla Insolia), giovane violinista cresciuta all’Ospedale della Pietà, noto per la sua prestigiosa orchestra femminile, il cui straordinario talento è tuttavia confinato dietro una grata, nascosto allo sguardo del mondo. Tutto cambia con l’arrivo del nuovo insegnante, Antonio Vivaldi (Michele Riondino), che porta con sé un vento di rinnovamento interiore, cuore emotivo e narrativo che guida la crescita dei personaggi e l’evoluzione della trama.

Musica che salva e ferisce, in destini segnati

In una Venezia che irrigidisce la vita delle donne in ruoli predefiniti, Damiano Michieletto dipinge la vicenda delle orfane dell’Ospedale della Pietà, sospese tra protezione e prigionia, evidenziando la condizione femminile di un’epoca in cui la donna era considerata fragile per natura, subordinata e destinata a una vita controllata.

In questo contesto, le bambine abbandonate, le figlie indesiderate di relazioni proibite, le povere e le prostitute diventano ancora più vulnerabili. Consegnate alla Pietà, si trovano a un destino già segnato: essere educate alla modestia, ridotte a presenze invisibili, assegnate a lavori umili e con la prospettiva di una vita monastica o di un matrimonio combinato. Eppure, paradossalmente, è la musica a donare loro un talento che le illumina e, al tempo stesso, le incatena.

Le loro esibizioni, acclamate dall’élite veneziana, avvengono dietro grate che celano i loro volti: ammirate, ascoltate, ma non realmente viste. Michieletto trasforma questa contraddizione in immagini dal forte valore simbolico, evocando la tensione tra visibilità e invisibilità e rendendo le esecuzioni musicali veri e propri momenti di rivelazione. Indugiando sui volti delle ragazze, sulle mani tremanti e sul respiro che precede l’arco del violino, le melodie incrinano le maschere imposte dalla società e raccontano, in silenzio, l’anima delle giovani musiciste e di chi le ascolta.

Antonio Vivaldi, interpretato con carisma da Michele Riondino, torna in questo mondo, avendo già insegnato alla Pietà, come vento di cambiamento, toccando rigidità e paure, liberando le potenzialità delle ragazze e spingendo Cecilia — attraversata da un tumulto interiore che prende forma in ogni sguardo e gesto, e interpretata da un’intensa Tecla Insolia, che ricorda in parte la sua Modesta ne L’arte della gioia — a scoprire che il talento non è solo un dono, ma uno strumento di emancipazione.

La “gabbia” dell’Ospedale diventa allora uno spazio di consapevolezza e autonomia interiore, una possibilità di trasformare vincoli imposti in libertà interiori, anche in una Venezia dominata da norme inflessibili e da un patriarcato soffocante, con la musica come unico strumento di fuga e ribellione. Un modo per esistere oltre i confini, pur restando vincolate dall’istituzione che le protegge e le limita, con le note suonate da Cecilia e dalle sue compagne a emblema di un piccolo atto di resistenza, che incrina la facciata della futura serva, moglie, madre o monaca, mostrando la bellezza e l’ingiustizia della loro vita.

Michieletto racconta quindi una rinascita che non ha bisogno di gesti plateali: basta un accordo che vibra più del previsto, uno sguardo intenso, un’emozione che emerge. In Primavera, la musica non è solo arte: è salvezza, ribellione e libertà, che prende vita grazie ai costumi di Maria Rita Barbera e Gaia Calderone, alle scenografie di Gaspare De Pascali e alla fotografia poetica di Daria D’Antonio, creando un mondo sospeso tra austerità e splendore.

Ma a giocare un ruolo fondamentale è la colonna sonora composta di Fabio Massimo Capogrosso ed eseguita dall’Orchestra e Coro del Teatro La Fenice che, intrecciando brani barocchi e composizioni originali, si trasforma in un vero e proprio personaggio a sé stante, un flusso sonoro che guida e accompagna l’intera storia.

Un debutto, intenso, poetico e imperfetto

Primavera conquista ed emoziona per sensibilità e ricchezza immaginativa, pur lasciando talvolta intuire sfumature che avrebbero potuto arricchirla ulteriormente. Alcune sequenze, per quanto belle e coinvolgenti, tendono a dilungarsi, rallentando il ritmo narrativo e attenuando l’impatto della lotta interiore legata al velato sentimento amoroso dei protagonisti. La scena d’ingresso di Stefano Accorsi — aristocratico veneziano e alto ufficiale reduce vittorioso dalla guerra, a cui Cecilia è promessa sposa — infonde una scossa emotiva immediata, ma il personaggio avrebbe meritato un approfondimento maggiore, capace di esplorare più a fondo la condizione femminile e le dinamiche di potere nella Venezia del Settecento.

Proprio questi momenti di sospensione, però, permettono allo spettatore di immergersi nei personaggi e nella storia, e di percepirne la tensione e la poesia.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

7


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