Qualcuno volò sul nido del cuculo, alcune curiosità sul capolavoro che sfida il silenzio con protagonista Jack Nicholson.
Diretto dal regista ceco naturalizzato statunitense Miloš Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest) è molto più di un semplice film: è un’opera che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del cinema, per la sua straordinaria potenza espressiva e per il coraggio con cui affronta temi scomodi, spesso ignorati o distorti. Uscito nel 1975, il film squarcia il velo di omertà che avvolgeva gli ospedali psichiatrici statali americani, denunciando senza mezzi termini i trattamenti disumani inflitti ai pazienti, vittime di un sistema alienante, autoritario e privo di empatia.
L’opera si alza come un’accusa severa contro un apparato medico che invece di curare opprime, e le persone con disturbi mentali vengono rappresentate non solo come malate, bensì come esseri umani annichiliti da terapie aggressive e protocolli spersonalizzanti, spesso mossi più dalla paura e dall’incomprensione che da reali intenti terapeutici.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey, pubblicato nel 1962 e tradotto in italiano da Rizzoli nel 1976. Kesey scrisse il libro dopo un’esperienza formativa come volontario presso il Veterans Administration Hospital di Palo Alto, in California, e fu proprio il contatto diretto con i pazienti a fornirgli lo spunto per costruire una storia potente, viscerale, carica di simbolismo e ribellione, che scava nelle pieghe più oscure dell’animo umano e nella società americana del dopoguerra.
A rendere indimenticabile Qualcuno volò sul nido del cuculo, sono le straordinarie interpretazioni di Jack Nicholson, nei panni del ribelle e carismatico Randle McMurphy, e di Louise Fletcher, nel ruolo della glaciale e implacabile infermiera Ratched. La loro sfida personale, simbolica e ideologica è il cuore pulsante del film.
Non sorprende quindi che Qualcuno volò sul nido del cuculo sia uno dei rarissimi film ad aver conquistato i cosiddetti Big Five agli Oscar: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista e miglior sceneggiatura non originale. Un riconoscimento straordinario, raggiunto solo da Accadde una notte di Frank Capra (1934) e Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme (1991).
Qualcuno volò sul nido del cuculo non è solo una critica al sistema psichiatrico, ma un manifesto sulla libertà individuale, sull’importanza dell’empatia e sul coraggio necessario per resistere all’omologazione. Un film senza tempo, capace ancora oggi di interrogarci sul concetto di normalità e sul sottile confine tra cura e controllo, un capolavoro che, come McMurphy, rifiuta di piegarsi e vola via, libero.
1. Un set autentico: girato in un vero ospedale psichiatrico
Miloš Forman, regista di grande rigore e sensibilità, era ossessionato dal desiderio di rendere il film il più autentico possibile, per questo volle girare Qualcuno volò sul nido del cuculo in un ospedale psichiatrico reale. La scelta cadde sull’Oregon State Hospital di Salem, una struttura operativa sin dal XIX secolo, ancora attiva al momento delle riprese. La troupe visse per settimane tra corridoi asettici e reparti popolati da veri pazienti, molti dei quali parteciparono come comparse, fondendo finzione e realtà in un amalgama disturbante e coinvolgente.
Ma non si trattò solo di ambientazione, il personale sanitario di fatto collaborò attivamente: il direttore della struttura, il Dr. Dean Brooks, interpretò sé stesso nel ruolo del dottor Spivey, diventando un punto di riferimento anche fuori dal set, e la sua presenza, insieme alla decisione di girare in reparti ancora in uso, conferì al film una dimensione quasi documentaristica, portando sullo schermo la sofferenza invisibile di chi è rinchiuso e dimenticato.
2. Jack Nicholson: una scelta inaspettata, diventata leggendaria
Il volto di Jack Nicholson è oggi indissolubilmente legato a quello di Randle Patrick McMurphy, ma il suo casting fu tutt’altro che scontato. Kirk Douglas, che per anni aveva interpretato McMurphy a teatro e possedeva i diritti del romanzo, sognava di portare il personaggio sul grande schermo, tuttavia, ormai sessantenne, fu considerato troppo avanti con l’età per il ruolo. Il figlio, Michael Douglas, divenuto produttore del film, decise allora di affidarsi a un attore in ascesa, noto per la sua intensità e la sua imprevedibilità: Jack Nicholson.
La sua performance non fu solo magistrale, ma epocale, Nicholson incarnò con disarmante naturalezza il ribelle carismatico, la scintilla che accende la coscienza sopita degli emarginati, con il suo sorriso sfrontato, il suo sarcasmo esplosivo e una tensione nervosa sempre in agguato, trasformò McMurphy in un simbolo della libertà individuale e della resistenza contro l’autorità oppressiva.
3. Louise Fletcher: il volto gelido del potere
Nel ruolo dell’infermiera Mildred Ratched, Louise Fletcher offrì una delle interpretazioni più iconiche e disturbanti nella storia del cinema. Dietro un’apparente calma e un volto impassibile, il suo personaggio esercita un controllo sottile e inquietante, fatto di sguardi, silenzi e manipolazioni emotive. Il suo potere non si impone con la forza, ma si insinua come un veleno silenzioso nelle pieghe della mente.
L’intensità del suo ruolo fu tale che sul set alcuni attori iniziarono a evitarla, incapaci di separare l’attrice dal personaggio, eppure, nella vita reale, Fletcher era tutt’altro che fredda: durante la cerimonia degli Oscar, vinse il premio come miglior attrice e commosse tutti dedicando il suo discorso ai genitori sordi, usando il linguaggio dei segni per ringraziarli. Un gesto di umanità che contrastava con la glaciale figura di Ratched e che rimane uno dei momenti più toccanti nella storia dell’Academy.
4. L’improvvisazione come strumento di verità cinematografica
Per restituire un ritratto veritiero della realtà manicomiale, Miloš Forman optò per un approccio anticonvenzionale. Incoraggiò gli attori a vivere per settimane all’interno dell’ospedale, indossando i panni dei loro personaggi anche fuori scena. Le giornate trascorrevano in un clima di immersione totale: gli attori interagivano con i veri pazienti, partecipavano alle attività quotidiane del reparto e spesso non erano nemmeno consapevoli di quando la telecamera stesse girando.
Questa tecnica permise di catturare momenti di grande verità emotiva e interazioni genuine, non filtrate dalla costruzione narrativa tradizionale. Le scene del film sono attraversate da un realismo quasi palpabile, che restituisce allo spettatore la disarmante umanità di un microcosmo marginale, spesso ignorato o stigmatizzato. L’improvvisazione divenne così un veicolo di autenticità, rendendo il film una testimonianza potente più che una semplice finzione.
5. Il Capo Bromden: da voce narrante a simbolo di rinascita
Nel romanzo originale di Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo è raccontato in prima persona dal Capo Bromden, un nativo americano apparentemente muto, la cui visione allucinata e poetica trasforma il manicomio in un simbolo della società moderna, alienante e repressiva. Il suo sguardo deformato e metaforico è ciò che rende il libro un capolavoro letterario.
Nel film, però, questo punto di vista viene accantonato a favore di una narrazione più lineare, centrata su McMurphy. Kesey disapprovò fortemente la scelta e dichiarò di non aver mai visto il film, convinto che avesse tradito il cuore della sua opera, ciò nonostante la figura del Capo rimane centrale, soprattutto nel finale.
Il momento in cui Bromden rompe il suo silenzio, libera sé stesso e spezza, letteralmente, le catene che lo tengono prigioniero, è uno dei più alti picchi emotivi della storia del cinema. Una liberazione fisica e simbolica, un grido silenzioso che racchiude la possibilità, rara e struggente, di riscatto.
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Emanuela Giuliani