La sceneggiatura di Hedda rilegge Ibsen tra desiderio, potere e repressione, ambientando il dramma nella Londra degli anni ’50.
Con Hedda, Nia DaCosta realizza un’operazione di riscrittura profondamente consapevole, che diventa il luogo principale di dialogo con Hedda Gabler di Henrik Ibsen. Più che una semplice trasposizione, il testo di DaCosta è una vera e propria amplificazione drammaturgica del classico del 1890, pensata per interrogare il presente attraverso la struttura del teatro ottocentesco.
La sceneggiatura, che grazie a Deadline potete leggere qui: HEDDA, conserva l’ossatura ibseniana — il conflitto interno della protagonista, la tensione tra desiderio e convenzione sociale, la progressiva compressione psicologica che conduce alla distruzione — ma ne riformula il linguaggio e le motivazioni. Spostando l’azione nella Londra degli anni ’50, DaCosta utilizza un periodo storicamente carico di repressione morale e rigidità di classe per rendere ancora più evidente la prigione sociale in cui Hedda è costretta a muoversi. La scelta temporale non è decorativa: ogni scena è costruita per riflettere un sistema di controllo che agisce attraverso il matrimonio, la rispettabilità e l’apparenza.
Qui la RECENSIONE: Hedda, la recensione: una rilettura intensa ma con qualche limite del classico di Ibsen

Uno degli interventi più radicali della sceneggiatura riguarda la ridefinizione dei rapporti emotivi. L’amore segreto di Hedda non è più Eilert, ma Eileen, una donna. Questo cambiamento riscrive il sottotesto dell’opera originale trasformandolo in testo esplicito: la frustrazione di Hedda non nasce solo dall’impossibilità di vivere liberamente la propria ambizione, ma anche dall’impossibilità di nominare il proprio desiderio. La scrittura costruisce così dialoghi carichi di non-detto, in cui la tensione erotica e intellettuale passa attraverso silenzi, sguardi e frasi trattenute, in linea con una sensibilità contemporanea.
DaCosta descrive Hedda come una figura iper-consapevole, lucida fino alla crudeltà, e la sceneggiatura insiste sulla sua intelligenza come elemento tragico: Hedda vede con chiarezza le dinamiche di potere che la circondano, ma non trova uno spazio in cui esercitarle. Da qui nasce la logica distruttiva che attraversa il testo, costruita scena dopo scena come una strategia, non come un impulso. Ogni gesto suo è motivato da un bisogno di controllo, da una volontà di lasciare un segno in un mondo che la ignora.
Significativo è anche il ritmo narrativo: la sceneggiatura concentra l’azione in un arco temporale ristretto, culminante nella notte della festa. Questo dispositivo permette a DaCosta di lavorare per accumulo, facendo emergere progressivamente le contraddizioni dei personaggi attraverso dialoghi serrati e situazioni che si caricano di ambiguità morale. La festa diventa, sul piano della scrittura, uno spazio teatrale moderno, un unico “atto” in cui maschere sociali e pulsioni private collidono.
Scritta fin dall’inizio pensando a Tessa Thompson, la sceneggiatura modella Hedda come un ruolo di presenza assoluta: quasi ogni scena è filtrata attraverso il suo punto di vista, e i personaggi secondari esistono soprattutto come superfici di proiezione del suo conflitto. Questo approccio rafforza la dimensione claustrofobica del testo e restituisce alla protagonista una centralità che, nella rilettura di DaCosta, diventa anche politica non mirando a “modernizzare” Ibsen in senso superficiale, ma smontando il classico e ricomponendolo, dimostrando come la tragedia di Hedda appartenga a ogni sistema che nega spazio alle menti brillanti quando queste non corrispondono alle aspettative del potere.






