Robert De Niro, il volto cangiante del cinema americano che sparisce dentro i suoi personaggi dando loro voce e corpo.
Ci sono attori che restano se stessi qualunque ruolo vestino, e poi c’è Robert De Niro, che sembra sparire dentro i suoi personaggi, lasciando che a emergere siano solo la voce, il corpo e il volto di qualcun altro. Il suo talento non è mai stato una questione di virtuosismo appariscente, ma di immersione totale, dal momento che, quando recita, non cerca di mostrare qualcosa, bensì si trasforma, si annulla, diventa.
Una capacità camaleontica che rende De Niro una delle figure più importanti e riconoscibili della storia del cinema, e i suoi ruoli iconici — da Travis Bickle e Jake LaMotta al giovane Vito Corleone — sono più di semplici messe in scena: sono archetipi, punti di riferimento con cui il cinema ha imparato a fare i conti. Ciascuno di queste figure ha segnato una tappa nell’evoluzione del linguaggio cinematografico, offrendo allo spettatore non solo una storia, ma una discesa negli abissi dell’animo umano, con una profondità così autentica da rendere difficile separarli dalla sua immagine.
Chi può dimenticare lo sguardo perso e inquietante di Travis che, davanti allo specchio, si chiede: “You talkin’ to me?”, o la furia autodistruttiva di LaMotta, che colpisce se stesso più duramente dei suoi avversari? Un realismo che non nasce dal caso, ma da un lavoro meticoloso, spesso estremo.
Per Toro scatenato, De Niro di fatto si allenò come un vero pugile, raggiungendo un livello atletico professionale, per poi ingrassare di oltre trenta chili nella seconda parte del film per incarnare fisicamente il decadimento. Fu una prova di dedizione mai vista prima che cambiò per sempre le aspettative nei confronti del lavoro dell’attore, e non si trattò di un semplice espediente scenico, ma di un modo per aderire alla verità del personaggio fino in fondo anche a costo di sacrificare il proprio corpo e sancì il legame con Martin Scorsese diventato uno dei più celebri della storia del cinema.
Insieme, di fatto, hanno esplorato le sfumature più complesse della natura umana, scavando in profondità nella violenza, nella colpa, nell’ambizione, ma anche nella fragilità e nel bisogno disperato di riscatto. Ecco così che con Taxi Driver ha raccontato l’alienazione urbana attraverso gli occhi di un reduce psicologicamente instabile, Travis Bickle, trasformando le strade notturne di New York in un paesaggio allucinato, sporco, quasi onirico. La regia di Scorsese e la performance intensa di De Niro hanno reso questo film un manifesto del disagio esistenziale post-Vietnam, con una tensione crescente che culmina in un’esplosione di violenza tanto disturbante quanto inevitabile.
Con Quei bravi ragazzi e Casinò hanno ridefinito il genere gangster con una precisione chirurgica, mescolando brutalità, ironia e uno stile visivo dinamico e ipnotico. In entrambi i film, De Niro incarna uomini immersi fino al collo in un mondo di regole non scritte, tradimenti e ambizioni smisurate. In particolare in Quei bravi ragazzi, interpreta Jimmy Conway, figura carismatica e temibile che agisce nell’ombra, mentre in Casinò dà vita a Sam “Ace” Rothstein, direttore di un casinò di Las Vegas ossessionato dal controllo, che lentamente vede sgretolarsi il suo impero.
In queste storie, Scorsese e De Niro non si limitano a narrare il crimine, ma ne sviscerano le dinamiche emotive e morali, senza mai perdere di vista l’umanità — spesso dolorosa e contraddittoria — dei personaggi. The Irishman invece è una riflessione malinconica sul tempo che passa e sul prezzo che si paga per una vita segnata dalla violenza. De Niro, nei panni di Frank Sheeran, offre una performance calibrata e dolente attraversando decenni di storia americana, dalla mafia al sindacato, fino alla vecchiaia e alla solitudine. È un film che parla di lealtà, rimorso e oblio, con un tono elegiaco che segna una svolta rispetto alla frenesia dei lavori precedenti.
In Killers of the Flower Moon, De Niro ha offerto una delle sue interpretazioni più sinistre, dando corpo a William Hale, figura apparentemente rispettabile ma profondamente corrotta. Incarnando il potere manipolatore e predatorio con una calma glaciale, l’attore costruisce un personaggio che inquieta proprio perché si cela dietro una maschera di civiltà e paternalismo. Il film, ambientato nell’America degli anni ’20, racconta il genocidio sistematico degli Osage per il controllo del petrolio e segna un nuovo capitolo nella collaborazione tra De Niro e Scorsese, più politico e consapevole, in cui la violenza non è più solo personale o criminale, ma anche istituzionale.
Eppure, sarebbe ingiusto relegare De Niro al solo universo del dramma, la sua carriera è punteggiata da incursioni intelligenti e sorprendenti nella commedia, che hanno rivelato un lato ironico e giocoso spesso sottovalutato. In Midnight Run, per esempio, riesce a costruire un perfetto equilibrio tra azione e umorismo, mostrando un tempismo comico preciso e disarmante. Con Ti presento i miei, ha saputo giocare con la sua immagine pubblica, trasformandosi in un suocero sospettoso e autoritario che, dietro l’apparente rigidità, nascondeva una tenerezza inaspettata. In questi ruoli più leggeri, De Niro ha dimostrato di saper ridere di sé stesso e del suo mito, senza mai tradire la propria integrità artistica.
Ma anche quando si è trattato di affrontare nuove generazioni di registi e nuovi stili narrativi, De Niro non si è tirato indietro. In Joker di Todd Phillips, ha dato forma e corpo a Murray Franklin, un conduttore televisivo cinico e arrogante, simbolo di una società superficiale che si accanisce su chi è più fragile. Un ruolo secondario ma fondamentale, che richiama in modo intelligente il suo passato — basti pensare a Re per una notte — e che conferma la sua capacità di attraversare le epoche senza perdere rilevanza.
La grandezza di De Niro, però, non si misura solo attraverso i premi (due Oscar, svariati riconoscimenti internazionali) o le interpretazioni entrate nella storia. Si misura nella coerenza del suo percorso, nella curiosità che lo ha sempre spinto a cercare qualcosa di nuovo, nel rifiuto di adagiarsi sulla propria leggenda. Anche come imprenditore culturale ha saputo lasciare un segno: nel 2002 ha co-fondato il Tribeca Film Festival, un gesto concreto per sostenere il cinema indipendente e restituire vitalità a un quartiere ferito dall’11 settembre. È un impegno che dimostra come il suo amore per il cinema non si esaurisca sullo schermo, ma continui anche fuori, nella promozione del talento e nella difesa della cultura.
Robert De Niro non recita semplicemente: esplora, distrugge e ricostruisce l’identità dei suoi personaggi, facendosi specchio delle contraddizioni del nostro tempo. È il volto della rabbia e della solitudine, della violenza e della tenerezza, dell’ironia e della disperazione. In ogni ruolo, in ogni scelta, c’è sempre stata una ricerca, un’urgenza espressiva che va oltre la recitazione, e la volontà di capire l’essere umano, anche nei suoi lati più oscuri, e di restituirlo con onestà allo spettatore. È, in una parola, il cinema — nelle sue forme più pure, estreme, umane.
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Emanuela Giuliani