Un’immersione nel Giappone del XVII secolo tra samurai, intrighi politici, cultura e dettagli storici fedelmente ricreati.
L’acclamata e pluripremiata prima stagione della serie Shōgun immerge gli spettatori in un Giappone in profondo mutamento. Il periodo Sengoku, dopo più di un secolo di guerre e instabilità, sta per giungere alla sua fase finale, e le grandi famiglie sono esauste dai conflitti, e la morte del Taikō lascia un vuoto di potere che rende il paese fragile, diviso e vulnerabile a nuove ambizioni. La serie ricostruisce questo clima con uno sguardo attento e realistico, mostrando un Consiglio dei Cinque Reggenti teso e precario, la crescente influenza dei gesuiti portoghesi nel commercio e nella politica, e la tensione tra il desiderio di preservare la tradizione giapponese e la necessità di confrontarsi con l’Occidente.
In questo mondo sospeso tra vecchio e nuovo si muove il codice dei samurai, un insieme di valori ancora non codificati ma profondamente radicati nella vita dei clan: un tessuto di rituali, disciplina e lealtà che regola ogni gesto, dal più quotidiano al più estremo. È in questo contesto storico e culturale che arriva John Blackthorne. Il suo naufragio sulle coste giapponesi non è presentato come un semplice caso fortuito: la serie lo mostra come l’evento capace di scuotere equilibri già fragili. Il suo sbarco coincide con un momento di forte esposizione a pressioni straniere e tensioni interne per la successione, accelerando processi politici e personali pronti a esplodere.
Shōgun racconta così come l’arrivo di un solo uomo possa influenzare una fase cruciale della storia, dimostrando che anche chi proviene da lontano, senza potere formale, può diventare decisivo nel destino di un intero paese.
Tra Oriente e Occidente
Nel Giappone del XVII secolo, osservato attraverso gli occhi di Blackthorne, il mondo prende vita. Lo straniero non è solo un personaggio: è la lente attraverso cui lo spettatore scopre un universo regolato da codici profondi e rituali complessi. La sua incredulità di fronte a usanze come il seppuku o il modo in cui i giapponesi affrontano la vergogna mette in luce la distanza culturale tra Oriente e Occidente, mostrando come ciò che appare incomprensibile abbia in realtà una logica radicata nella storia del paese.
Accanto a lui si muove Yoshii Toranaga, uomo che padroneggia l’arte della politica con la stessa abilità con cui impugna la spada. Le sue alleanze sono sottilmente ambigue, e ogni parola o silenzio diventa una mossa calcolata in un gioco dove la diplomazia è guerra silenziosa e il vero potere risiede nella capacità di anticipare e manipolare. Il ritmo lento e denso della narrazione riflette questa strategia, così diversa dalle storie occidentali più dirette.
Blackthorne, Mariko e Toranaga intraprendono percorsi interiori complessi, confrontandosi con dovere, fede, lealtà e sacrificio. Queste sfide diventano strumenti per ridefinire se stessi e il proprio ruolo in un mondo governato da regole severe. Mariko incarna in particolare la tensione tra disciplina e desiderio personale: cresciuta in un clan rigoroso, porta con sé ricordi e ferite che la costringono a interrogarsi sul proprio destino, dimostrando come la scelta individuale possa coesistere anche in un contesto dominato da obblighi e tradizione.
L’arte della produzione
La serie si distingue come opera audiovisiva più che come semplice prodotto televisivo. Ogni elemento scenico è curato con precisione, rendendo il Giappone del XVII secolo vivido e credibile: le architetture richiamano i castelli del periodo Azuchi–Momoyama, tessuti, acconciature e armi sono realizzati da artigiani giapponesi contemporanei, e i protocolli cerimoniali sono stati ricreati con l’aiuto di esperti culturali. Questo rigore permette agli spettatori di percepire il Giappone non come un semplice sfondo esotico, ma come un organismo vivo e coerente.
L’uso predominante della lingua giapponese non è una scelta stilistica fine a sé stessa: distingue nettamente gli ambienti di corte da quelli stranieri, evidenzia l’isolamento linguistico di Blackthorne e trasmette direttamente le gerarchie sociali attraverso onorifici, forme di rispetto e silenzi codificati. La serie richiama il cinema giapponese classico, con inquadrature simmetriche e distanziate alla Kurosawa, uso simbolico della natura e del vuoto, e combattimenti rapidi e realistici, privi di enfasi spettacolare.
Ogni episodio diventa un vero e proprio capitolo cinematografico: la luce naturale è calibrata con cura, e lo “spazio bianco” emotivo, fatto di silenzi, attese e sguardi, si integra nella narrazione. Questo ritmo lento e meditativo riflette il mondo dei samurai, dove la scelta di non agire può essere talvolta la mossa più potente.
Dietro le quinte
La realizzazione di Shōgun è stata segnata da un impegno straordinario nella fedeltà storica e culturale. Gli attori giapponesi hanno partecipato a sessioni di addestramento intensivo per apprendere l’uso corretto delle spade, i gesti rituali e le cerimonie di corte, così da rendere ogni scena il più autentica possibile. Per molte sequenze, sono stati consultati storici e esperti del periodo Azuchi–Momoyama, per garantire accuratezza nelle architetture, nei costumi e nei protocolli.
Le riprese si sono svolte in diverse location in Giappone, tra cui castelli restaurati e paesaggi naturali coerenti con l’epoca. Alcuni set interni sono stati costruiti su scala reale, con particolare attenzione alla luce naturale e alla disposizione degli spazi, dai tatami alle stoviglie. Questo ha permesso agli attori di immergersi completamente nella realtà del XVII secolo, dando vita a performance credibili e intense.
Hiroyuki Sanada ha insistito per eseguire personalmente molte scene di combattimento, portando sullo schermo una fisicità e una precisione straordinarie. L’uso predominante della lingua giapponese ha creato sfide logistiche, come la necessità di sottotitolare accuratamente ogni dialogo senza sacrificare il ritmo della narrazione. Inoltre, alcune sequenze simboliche, come gli spazi vuoti o i momenti di silenzio meditativo, sono nate da improvvisazioni sul set, suggerite da registi e direttori della fotografia ispirati al cinema di Kurosawa, contribuendo a rendere Shōgun un’esperienza visiva immersiva e unica.
Successo e risonanza
Shōgun ha ottenuto un consenso quasi unanime, diventando oggetto di discussione sia accademica sia critica. Hiroyuki Sanada è stato elogiato per una performance che supera i tradizionali canoni del ruolo storico: il suo Toranaga emerge attraverso gesti misurati, respiri, rughe e un senso di calma pericolosa che comunica più di mille parole. L’intero cast giapponese ha restituito una complessità linguistica e culturale spesso trascurata dalle produzioni occidentali.
Molti studiosi hanno sottolineato come Shōgun mantenga un equilibrio tra storia, politica e introspezione, evitando rappresentazioni orientaliste e offrendo una visione rispettosa e approfondita del Giappone feudale. Al contempo, la serie funziona come metafora contemporanea sul potere, sulla manipolazione e sulla fragilità dell’ordine politico. Non è solo intrattenimento, ma un vero ponte culturale che avvicina il pubblico globale alla storia giapponese con rigore quasi accademico, restando al contempo appassionante e accessibile. La sua influenza si manifesta nel rinnovato interesse per il Giappone premoderno, nella riflessione su leadership e strategia, e nell’apprezzamento per narrazioni lente, complesse e profondamente umane.
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Emanuela Giuliani






