Spencer, curiosità: quando la principessa smette di essere favola

Alcune curiosità sul biopic diretto da Pablo Larrain: Spencer, quando la principessa smette di essere favola.

Scritto da Steven Knight e diretto dal regista cileno Pablo Larraín, Spencer è un film che trascende i confini del biopic tradizionale per offrirci un ritratto intimo, visionario e profondamente umano della Principessa Diana. A incarnarla è Kristen Stewart, star di fama internazionale, che in questo ruolo sorprende con un’interpretazione straordinariamente intensa, fragile e vibrante. La sua performance ha lasciato un’impronta indelebile sia nella critica che nel cuore degli spettatori, valendole la prima candidatura agli Academy Awards come Miglior Attrice Protagonista, oltre a prestigiose nomination ai Golden Globe, ai BAFTA e ai Critics’ Choice Awards.

Spencer non è una semplice cronaca di eventi, ma un’immersione psicologica e sensoriale nel tormento e nella liberazione di una donna che ha saputo ribellarsi a un destino già scritto. Lady Diana — Lady D — non è qui solo una figura pubblica, ma diventa simbolo di emancipazione, martire del protocollo e, al tempo stesso, eroina del sentimento. Una principessa moderna, entrata nel cuore della favola reale solo per accorgersi che quel sogno, in realtà, era una gabbia dorata, e da quella gabbia, con coraggio e disperazione, sceglie di uscire.

Diana è ritratta come una donna complessa e straordinaria: generosa e tormentata, sofisticata e popolare, ribelle e vulnerabile, una figura che incarna la contraddizione e la bellezza della fragilità umana, capace di sfidare l’immobilismo della monarchia britannica per ritrovare se stessa. Con uno stile visivo poetico, quasi fiabesco, Larraín ci accompagna nei giorni più emblematici della sua trasformazione, ambientati durante le festività natalizie nella tenuta di Sandringham, nel Norfolk. In quel contesto ovattato, fatto di neve, silenzi e sguardi taglienti, Diana prende la decisione definitiva: rompere ogni schema, rifiutare ogni compromesso, e scegliere la libertà a costo della solitudine.

Spencer è dunque molto più di un film biografico: è un’opera lirica e psicologica, un sogno dai toni inquieti che racconta il risveglio di una donna imprigionata da ruoli imposti e aspettative opprimenti. Una donna che decide di essere solo Diana, semplicemente sé stessa. Diana Spencer, non più Lady D.

Kirsten Stewart in Spencer

1. Quanto c’è di vero in Spencer?

Il film si apre con la dicitura: “Una favola tratta da una vera tragedia”, una scelta che rivela subito l’intento poetico e non cronachistico dell’opera. Pablo Larraín costruisce un racconto fortemente simbolico, ambientato in un preciso momento della vita di Diana — le vacanze natalizie del 1991 a Sandringham House — ma lo trasfigura in chiave quasi fiabesca, onirica e claustrofobica. Il regista rinuncia a una ricostruzione storicamente dettagliata per indagare la psiche della protagonista, rendendo Spencer un film più vicino al thriller psicologico o al dramma esistenziale che al classico biopic. La verità, in questo caso, non è nei fatti ma nel sentire: la verità emotiva di Diana, espressa attraverso immagini, visioni e metafore.

2. Il significato del titolo

Spencer non è solo il cognome da nubile della Principessa del Galles, ma anche un richiamo diretto alla sua identità prima di diventare un’icona pubblica e utilizzarlo come titolo è una dichiarazione d’intenti: il film non racconta Lady Diana, ma Diana Spencer, la donna dietro il mito. Questo ritorno al nome originario simboleggia il desiderio di emancipazione e la ricerca di sé che attraversa l’intera narrazione. Il titolo sottolinea così la lotta di Diana per sottrarsi al peso del ruolo imposto e per riaffermare la propria individualità, anche a costo di rompere con tutto ciò che rappresenta la monarchia.

3. La colonna sonora

La colonna sonora, composta da Jonny Greenwood, gioca un ruolo fondamentale nel plasmare l’atmosfera disturbante e a tratti surreale del film. Greenwood mescola archi dissonanti a momenti di jazz libero, creando un contrasto sonoro che rispecchia lo stato emotivo fratturato di Diana. Non è una musica che accompagna, ma che spesso disorienta, intrappola, urla in silenzio. Alcuni passaggi sembrano evocare l’ansia e la dissociazione mentale, simili a quelli utilizzati nei film horror psicologici. Questa scelta musicale rafforza il senso di alienazione e oppressione che permea il film, rendendo la colonna sonora un’estensione diretta del mondo interiore della protagonista.

4. Il maggiore Alistair Gregory: personaggio reale o invenzione?

Il maggiore Alistair Gregory, interpretato con inquietante rigore da Timothy Spall, non è un personaggio storico documentato. Tuttavia, incarna un archetipo ben riconoscibile nella narrazione monarchica: il sorvegliante, il custode dell’ordine, il volto umano del controllo istituzionale. Potrebbe essere ispirato a figure come i consiglieri o i responsabili della sicurezza reale, ma nel film assume un ruolo simbolico molto più potente. Con il suo sguardo fisso e la presenza costante, Gregory diventa l’incarnazione della macchina oppressiva della monarchia, una figura quasi kafkiana, priva di empatia, che rappresenta il potere impersonale che osserva, giudica e limita.

5. I riferimenti ad Anna Bolena

Uno degli elementi più sorprendenti e affascinanti di Spencer è l’uso della figura di Anna Bolena come specchio simbolico. Diana ne legge la biografia, ne sogna la presenza, ne sente quasi l’identificazione. Come Bolena, anche lei è una donna alla corte di un sovrano che l’ha scelta e poi tradita. Il parallelismo tra le due storie — separate da secoli, ma unite da dinamiche patriarcali e destini tragici — aggiunge un livello di profondità storica e mitica alla vicenda. Anna Bolena, nel film, non è solo un fantasma, ma un monito e una sorella spirituale. Il suo destino appare come uno spettro che incombe su Diana, che tuttavia cerca di scrivere un finale diverso: non quello del martirio, ma quello della fuga, della rinascita, della libertà.

6. La performance di Kristen Stewart

L’interpretazione di Kristen Stewart è centrale nel successo del film. Lontana dall’imitazione caricaturale, Stewart costruisce una Diana vibrante, tormentata e vulnerabile. La sua recitazione è fatta di sguardi sfuggenti, pause nervose, gesti minimi ma potentissimi. Ha ricevuto una nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista per questo ruolo, segno del riconoscimento critico di una performance intensa e radicale. Stewart riesce a rendere palpabile il dolore della principessa senza mai ricorrere al melodramma, restituendone con delicatezza la complessità interiore.

7. L’ambientazione come gabbia psicologica

Sandringham House, luogo delle vacanze natalizie della famiglia reale, è rappresentata come un labirinto freddo e severo. I corridoi infiniti, le stanze simmetriche e i rituali rigidi trasformano il palazzo in una prigione mentale. La scelta di ambientare il film quasi interamente in questo spazio chiuso accentua il senso di claustrofobia e isolamento. Anche i costumi — sontuosi ma imposti — e la presenza costante di protocolli e regole non scritte contribuiscono a creare un mondo opprimente. Diana è come un uccello in gabbia, e il film segue ogni suo sforzo per evadere, per respirare, per ritrovare il contatto con la realtà attraverso i figli e la natura.

8. Simbolismi ricorrenti

Il film è costellato di simboli: la perla staccata dalla collana, la zuppa con i gioielli, l’uniforme cucita a forza, il fagiano impagliato. Ogni elemento ha un valore allegorico. Le perle rappresentano il lusso vuoto e l’oppressione; i vestiti, una seconda pelle imposta; il cibo, un atto di controllo e punizione. Anche la cucina, unico luogo in cui Diana riesce a trovare un minimo conforto, diventa il suo rifugio, lontano dalle regole di etichetta. Questi dettagli rendono Spencer un film denso di livelli di lettura, più vicino alla poesia visiva che alla cronaca.

9. La scena finale e il concetto di liberazione

Il film si chiude con una delle poche scene girate all’esterno del palazzo: Diana con i figli in auto, mentre ascoltano “All I Need Is a Miracle” dei Mike + The Mechanics e mangiano da KFC. Questo momento apparentemente semplice è in realtà carico di significato: rappresenta una fuga simbolica, la rottura definitiva con l’ambiente claustrofobico della casa reale. L’auto diventa spazio di libertà e la musica pop, in contrasto con le composizioni classiche precedenti, segna un cambio di tono. È un finale aperto, che non racconta ciò che succederà dopo, ma celebra il primo vero atto di autodeterminazione di Diana.

10. Costumi d’epoca ispirati, ma non imitativi

I costumi disegnati da Jacqueline Durran — già vincitrice di un Oscar — non sono riproduzioni fedeli degli abiti indossati da Diana nella realtà, ma evocazioni stilistiche. Durran ha studiato i capi realmente indossati dalla principessa e li ha reinterpretati in chiave cinematografica, per trasmettere visivamente le sue emozioni e il suo disagio. I vestiti diventano strumenti di narrazione: rigidi, imposti, bellissimi ma soffocanti, in perfetto contrasto con l’abito finale — semplice e casual — che indossa durante la fuga. Un altro esempio di come Spencer usi gli elementi estetici per parlare di psicologia.

11. Le location: non Sandringham, ma…

Il film non è stato girato nella vera Sandringham House. Per ricreare l’ambiente aristocratico britannico, la produzione ha utilizzato diverse dimore storiche nel Regno Unito e in Germania, tra cui la Schloss Nordkirchen in Westfalia e la castellana Hatfield House in Inghilterra. Queste location sono state scelte per la loro architettura imponente e la loro capacità di suggerire un’atmosfera nobile ma anche inquietante. Il palazzo nel film sembra un luogo senza tempo, un teatro in cui si consuma una tragedia privata.

©Riproduzione Riservata

Emanuela Giuliani


Pubblicato

in

da

Tag: