La verità interiore di una favola moderna
Spencer non è un film storico nel senso convenzionale. Non mira a ricostruire fedelmente un evento reale, ma lo trasfigura in un’esperienza psicologica e sensoriale. L’ambientazione – le vacanze di Natale del 1991 a Sandringham House – è solo un punto di partenza, un contenitore narrativo per un viaggio interiore. La frase d’apertura, “A fable from a true tragedy”, non è solo un avvertimento stilistico: è un manifesto poetico. Quello che vediamo non è la cronaca di un momento, ma la sua elaborazione emotiva, filtrata attraverso la soggettività tormentata della protagonista.
Pablo Larraín, già autore di Jackie, continua a esplorare il confine labile tra rappresentazione e identità, tra ciò che appare e ciò che si prova. Con Spencer compie un passo ulteriore, immergendoci nella mente di Diana, fino a farci percepire il tempo come lei lo vive: ovattato, minaccioso, privo di punti di riferimento. L’atmosfera è sospesa, a tratti onirica, dominata da silenzi e inquadrature claustrofobiche che sembrano spiare un’anima in prigione. La realtà visibile lascia spazio a una verità invisibile, quella della solitudine interiore, della fragilità che si fa resistenza.
Il titolo stesso, Spencer, è una dichiarazione di intenti. Non un omaggio al personaggio pubblico, ma un ritorno all’identità originaria, pre-monarchica, pre-mediatica. È la persona che reclama la propria voce, la propria storia. Larraín costruisce così una contro-narrazione: un racconto privato che scardina il mito e lo riempie di carne, sangue e dolore. Spencer non è un biopic, ma una ribellione estetica e politica.
Simboli, metafore e presenze spettrali
Il linguaggio visivo del film è ricco di segni, simboli e apparizioni che trascendono il realismo. Ogni oggetto è caricato di significati interiori: la collana di perle che si spezza nella zuppa non è solo una scena disturbante, ma una perfetta allegoria dell’oppressione matrimoniale e dell’identità femminile frantumata. Il gesto istintivo di Diana, che immagina di ingerire quelle perle, è una forma di autocannibalismo simbolico: introiettare la violenza che le è stata inflitta.
Il fagiano impagliato ritorna come un leitmotiv macabro, icona della bellezza svuotata di vitalità. Esposto, ornato, ma morto. Come Diana. L’abito cucito a forza per la cena, rigido e costrittivo, non è solo un vestito: è una seconda pelle imposta, una camicia di forza cerimoniale che soffoca l’autenticità in nome dell’apparenza.
Tra le presenze più enigmatiche spicca quella di Anna Bolena, figura storica evocata dalla protagonista come alter ego simbolico. La regina decapitata diventa un’ombra parlante, una sorella nella sventura, una proiezione delle paure di Diana. Entrambe intrappolate in sistemi patriarcali e dinastici, ridotte a strumenti di legittimazione maschile. Ma mentre Bolena fu sacrificata, Diana cerca — con esitazioni e dolori — di sottrarsi al destino scritto per lei. È in questo gesto di disobbedienza che il film trova il suo nucleo più radicale.
Musica e costumi: quando l’estetica racconta la mente
La colonna sonora di Jonny Greenwood è un altro elemento che rende Spencer un’opera profondamente soggettiva. I suoni non accompagnano le immagini, ma sembrano provenire direttamente dalla psiche di Diana. Jazz scomposto, archi disturbanti, momenti di atonalità: la musica vibra come uno stato d’animo, si incrina come un pensiero ossessivo, si spezza come un grido represso. L’effetto è straniante e immersivo: lo spettatore non osserva Diana, la sente.
I costumi, firmati da Jacqueline Durran, non sono semplici repliche d’epoca. Sono costumi dell’anima. Ogni tessuto parla: del peso dell’apparenza, della gabbia dell’etichetta, della femminilità codificata secondo canoni rigidi. La palette cromatica si fa sempre più cupa man mano che Diana si chiude in sé, mentre nell’ultima sequenza – dove indossa abiti semplici e morbidi – il colore torna, la stoffa si fa leggera. È una trasformazione visiva che accompagna il percorso emotivo: dal rigore alla leggerezza, dal controllo alla possibilità.
Kristen Stewart: corpo, fragilità, resistenza
La performance di Kristen Stewart è l’anima del film. Attrice spesso associata a ruoli distaccati o enigmatici, qui trova una profondità nuova, scavando nella carne viva del personaggio, la sua Diana è ipersensibile, disallineata, continuamente in tensione tra il desiderio di sparire e quello di esistere. La sua interpretazione è tutta nel corpo: mani che tremano, sguardi tagliati, respiri trattenuti. Ogni gesto comunica un conflitto, un dolore trattenuto, una domanda irrisolta.
Stewart evita il mimetismo, non cerca la somiglianza esteriore, ma l’aderenza emotiva. Il suo lavoro è fatto di sottrazione, di silenzi carichi, di esitazioni calibrate. Non interpreta una vittima, ma una donna che combatte con le armi del dubbio, della memoria, della vulnerabilità. La candidatura all’Oscar è il riconoscimento di una prova attoriale fuori dagli schemi: non enfatica, ma intima, inquieta, vibrante.
La fuga come atto poetico e politico
Il finale di Spencer è un momento di rottura stilistica e narrativa. Per la prima volta, la scena si apre: la luce naturale entra, il paesaggio si fa reale, non filtrato. Diana guida con i figli verso un altrove che non è ancora salvezza, ma è possibilità. La canzone pop che accompagna la scena (All I Need Is a Miracle) è leggera, quasi banale, ma per questo sorprendentemente liberatoria. È il canto di chi si è tolto una maschera, fosse anche per un’ora.
Il fast food, il cibo consumato con le mani, rappresenta una scelta: rifiutare il cerimoniale, optare per la normalità. È un gesto piccolo, ma carico di senso. La macchina diventa veicolo simbolico di emancipazione, il primo spazio di libertà mobile. In quell’istante Diana non è più ingabbiata nel ruolo pubblico, ma riafferma la propria esistenza come soggetto autonomo.
Larraín non ci illude: sa che la favola non avrà un lieto fine. Ma ci mostra un atto di resistenza, una micro-rivoluzione privata. In quel frammento, Diana si riprende il nome, il tempo, lo spazio. Non è più Lady D. È Spencer.
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Emanuela Giuliani