The Greatest Showman: un sogno in musica tra luci e ombre della diversità

The Greatest Showman, un sogno in musica tra luci e ombre della diversità con protagonista un intenso e carismatico Hugh Jackman.

Uscito nelle sale il 25 dicembre 2017, The Greatest Showman è un musical biografico che, seppur romanzando ampiamente gli eventi, celebra la figura di Phineas Taylor Barnum, pioniere dell’intrattenimento moderno. Interpretato con carisma e intensità da Hugh Jackman, il film combina un’estetica visiva travolgente con una colonna sonora diventata rapidamente iconica, trasformando la vita di Barnum in una parabola sull’ambizione, la diversità e la potenza dell’immaginazione.

Barnum è ritratto come un imprenditore audace e visionario, capace di trasformare le sue origini umili nel motore di un sogno mai visto prima. Fu uno dei primi a intuire lo spettacolo non solo come evasione, ma anche come strumento di emancipazione personale e sociale. Il suo celebre “The Greatest Show on Earth” non rappresenta solo il trionfo di un sogno individuale, ma diventa anche rifugio per chi, emarginato dalla società, cerca uno spazio dove poter essere sé stesso.

I personaggi: voci e volti dell’emarginazione

Uno dei punti di forza del film è la coralità dei personaggi che ruotano attorno a Barnum, ciascuno con una storia capace di toccare corde profonde. Al centro spicca Lettie Lutz, la Donna Barbuta, interpretata con potente presenza scenica da Keala Settle: protagonista del brano simbolo This Is Me, diventa emblema di orgoglio e autodeterminazione, incarnando la rivendicazione dell’identità contro il giudizio e la vergogna.

Accanto a lei troviamo Anne e W.D. Wheeler, acrobati del circo e innamorati in un’epoca in cui le relazioni interrazziali erano ancora un tabù. La loro storia, delicata e tormentata, restituisce la tensione tra desiderio personale e norme sociali. Jenny Lind (Rebecca Ferguson), cantante lirica celebrata, incarna invece la dicotomia tra purezza artistica e compromesso commerciale, rivelandosi una figura ambigua: musa e, al tempo stesso, minaccia per Barnum.

Ogni personaggio – dal gigante irsuto all’uomo tatuato, dalla donna affetta da nanismo fino all’equilibrista – è al contempo “mostro” e metafora: simboli di marginalizzazione ma anche di riscatto, portatori di un’identità che trova nella scena il proprio riscatto. Il circo si configura così come una comunità alternativa, dove la diversità non solo è accolta, ma celebrata come risorsa.

Costumi e scenografie: un mondo sospeso tra sogno e realtà

Visivamente, The Greatest Showman è una sinfonia di colori e stile, che fonde il rigore dell’epoca vittoriana con la fantasia teatrale, creando un immaginario che conquista fin dai primi fotogrammi. I costumi, curati con straordinaria attenzione da Ellen Mirojnick, delineano con precisione ogni personaggio, valorizzandone unicità e ruolo narrativo. Tessuti ricchi, texture elaborate e colori vivaci costruiscono un’estetica che unisce il barocco a una sensibilità contemporanea, celebrando la pluralità delle identità.

Il guardaroba di Barnum accompagna la sua ascesa sociale: dagli abiti modesti iniziali a sontuosi completi ricchi di dettagli dorati, in perfetto stile da impresario. I “fenomeni da baraccone” indossano costumi che esaltano le loro peculiarità, trasformandole in punti di forza scenici, mentre Jenny Lind e Charity Barnum evocano un’eleganza classica e rarefatta, quasi onirica.

La scenografia gioca un ruolo altrettanto centrale. Dalle strade grigie della New York ottocentesca ai fastosi interni borghesi, fino al tendone del circo – cuore simbolico del film – ogni ambiente è costruito con intenzione narrativa. Il circo, in particolare, si presenta come uno spazio liminale: sospeso tra realtà e fantasia, dove le leggi del mondo si piegano alla forza del desiderio e dell’immaginazione. La palette cromatica alterna tonalità calde e vivaci a ombre più drammatiche, seguendo l’andamento emotivo della storia. Le luci, teatrali e direzionali, sottolineano la natura spettacolare di ogni scena, sostenendo l’atmosfera fiabesca in cui tutto è possibile e la verosimiglianza lascia spazio all’emozione.

Musica e coreografie: il cuore pulsante del film

La colonna sonora, firmata da Benj Pasek e Justin Paul (già autori di La La Land), non è un semplice accompagnamento, ma il vero motore narrativo del film. Ogni canzone racconta, accompagna, esprime ciò che le parole da sole non possono. Lo stile musicale, pop e contemporaneo, si fonde sorprendentemente bene con l’ambientazione storica, dando vita a brani che restano nella memoria.

This Is Me è diventata un inno globale all’autoaffermazione, mentre Rewrite the Stars esplora con struggente delicatezza i limiti imposti dall’esterno all’amore. The Greatest Show apre e chiude il film come un’esplosione di energia, incarna la visione di Barnum e la magia dello spettacolo.

Le coreografie di Ashley Wallen sono parte integrante dell’esperienza visiva: ogni numero musicale è costruito come una sequenza autonoma, dove danza, spazio e musica si fondono con naturalezza. Le influenze spaziano dal musical classico alla danza contemporanea, dallo street style al tip tap e all’acrobatica circense, creando un linguaggio corporeo che parla direttamente allo spettatore.

La regia e la coreografia si fondono per costruire momenti di forte impatto emotivo e visivo, come nella potente scena corale di From Now On, o nel duetto sospeso nel vuoto di Rewrite the Stars, dove il superamento della gravità diventa metafora del superamento dei limiti sociali. La macchina da presa si muove con i corpi, creando un vortice sensoriale che riflette la vertigine del sogno e dell’ambizione. Musica e danza diventano così la vera essenza del film: un linguaggio universale che supera ogni barriera e unisce le diversità in nome della meraviglia.

Tra spettacolo e verità storica

Nonostante il grande successo di pubblico e l’alto valore ispirativo, The Greatest Showman ha suscitato critiche per la rappresentazione idealizzata di P.T. Barnum. Il film lo dipinge come un pioniere inclusivo, pronto ad accogliere gli emarginati e dare loro voce. La realtà storica, però, racconta un’altra storia: Barnum fu un uomo d’affari spregiudicato, spesso accusato di sfruttamento e mistificazione, che trattava le persone con disabilità o condizioni rare come attrazioni più che come esseri umani.

Il film, consapevolmente, sceglie di omettere queste zone d’ombra, proponendo un racconto simbolico piuttosto che una biografia fedele. Da qui il dibattito: c’è chi critica questa “ripulitura” come una forma di revisionismo, e chi, invece, difende il film come una favola moderna, dove Barnum non è tanto un personaggio storico, quanto un archetipo. In questa chiave, The Greatest Showman diventa una metafora del potere trasformativo dello spettacolo e della possibilità di reinventarsi.

Un musical che invita a sognare – e a riflettere

The Greatest Showman è molto più di un musical spettacolare: è una riflessione visiva e sonora sul desiderio di riscatto, sull’inclusione e sul valore dell’immaginazione. Se da un lato affascina con coreografie dinamiche, scenografie scintillanti e una colonna sonora trascinante, dall’altro invita a porsi domande sul modo in cui raccontiamo il passato e sul bisogno universale di essere accolti.

Pur con le sue semplificazioni, il film riesce a parlare a un pubblico trasversale, toccando temi ancora urgenti: l’emarginazione, la ricerca di identità, il diritto di esistere al di fuori delle norme. In un mondo che spesso respinge ciò che è diverso, The Greatest Showman si presenta come un vibrante inno alla pluralità e al sogno condiviso di un futuro più inclusivo.

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Emanuela Giuliani


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