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The Mastermind, la recensione: un colpo mancato

The Mastermind di Kelly Reichardt: ironia e crisi personale nell’America degli anni ’70, con un buon inizio ma un finale debole.

Tra le registe più riconoscibili del cinema indipendente americano, Kelly Reichardt, con The Mastermind, prova a unire il sottile tono ironico del film di rapina con una riflessione più seria sul fallimento personale e sull’identità maschile. Il film è stato presentato in Concorso alla 78esima edizione del Festival di Cannes, dove ha suscitato curiosità e perplessità. Se da una parte infatti la Reichardt continua a indagare i lati più nascosti dell’America, dall’altra fatica a trovare un equilibrio tra il racconto personale e la critica sociale.

Ambientato in una tranquilla periferia del Massachusetts, intorno al 1970, The Mastermind ha per protagonista James Blane Mooney (Josh O’Connor), architetto e padre disoccupato, che vive con la moglie Terri (Alana Haim), i due figli adolescenti e i suoi genitori, trascorrendo le giornate tra apatia e frustrazione. Durante una delle sue visite al piccolo museo cittadino, decide di organizzare una rapina per rubare quattro quadri di valore. Dopo aver constatato le scarse misure di sicurezza del museo, recluta tre complici, inesperti e impacciati quanto lui. E così, quello che sembrava un piano semplice e infallibile rivela da subito i suoi enormi limiti, pari a quelli dei personaggi coinvolti.

Un colpo a metà tra ironia e smarrimento

Muovendosi con delicatezza tra la commedia e il dramma, Kelly Reichardt, attraverso un tono malinconico racconta una storia di crisi personale ambientata nell’America delle periferie sonnolente degli anni ’70, accompagnandoci all’interno di una società ordinaria, pervasa da un senso profondo di vuoto e disillusione. Il protagonista, James Blane Mooney, è un uomo che ha perso la propria direzione nella vita: architetto disoccupato, marito frustrato, padre distante, e il suo sogno americano si è trasformato in un’apatia quotidiana fatta di fallimenti silenziosi e rinunce non dette.

Visivamente, l’estetica è sobria e quasi dimessa, perfettamente in linea con l’atmosfera del racconto, mentre la fotografia di Christopher Blauvelt, collaboratore storico di Reichardt, gioca con i colori sbiaditi e la luce naturale, restituendo l’immobilità di periodo sospeso tra progresso e rassegnazione. I paesaggi suburbani rafforzano il senso di stagnazione che avvolge la vita del protagonista, e anche il ritmo del montaggio, curato da Ajla Odobasic, è deliberatamente lento, con un andamento quasi contemplativo, che però nella seconda parte rischia di sfociare in uno stallo narrativo.

Dopo una prima parte tutto sommato interessante, in cui si percepisce la tensione tra desideri repressi e realtà grigia, The Mastermind inizia di fatto a perdersi, proprio come il suo protagonista James, il quale prova a uscire dalla sua condizione progettando una rapina tanto assurda quanto ingenua, più per sentirsi vivo che per un reale bisogno economico. Tuttavia, invece di riscattarsi, affonda ancora di più nella confusione, e le sue scelte, sempre più scoordinate, riflettono il disorientamento di una generazione di uomini cresciuti con l’idea di dover “provvedere”, ma schiacciati da un mondo che non offre più appigli certi.

Il tono iniziale, a tratti vicino alla tragicommedia, lascia di conseguenza progressivamente spazio a una narrazione rarefatta, dove i dialoghi si fanno sempre più scarni e le situazioni si ripetono senza un vero sviluppo, con lo spaesamento emotivo dei personaggi ulteriormente sottolineato dalla colonna sonora, minimalista, di William Tyler.

Le intenzioni del film diventano così via via meno chiare, e nonostante il tentativo di The Mastermind di voler parlare della crisi del maschile, della perdita di ruolo del padre, e del fallimento come condizione esistenziale, resta in bilico tra la riflessione e l’indecisione. La Reichardt, che in passato aveva saputo coniugare sguardo sociale e profondità umana con maggiore equilibrio, si pensi a First Cow o Wendy and Lucy, qui sembra faticare a tenere insieme i diversi livelli del racconto.

Anche il cast secondario, che vede la presenza di attori solidi come John Magaro e Gaby Hoffmann, non viene valorizzato: i loro personaggi restano sullo sfondo, abbozzati, come comparse in una storia che avrebbe potuto essere molto più corale. Alla fine, tutto resta in superficie: un limbo sfumato, privo di quella intensità emotiva e sociale che sembrava promettere all’inizio.

Un buon punto di partenza, ma una conclusione deludente

The Mastermind parte con ottime premesse: un’ambientazione curata, personaggi credibili e un tono che mescola umorismo e malinconia raccontano con sensibilità un microcosmo di frustrazioni e sogni infranti in un’America ai margini, dove le persone si sentono invisibili e cercano, spesso in modo maldestro, di farsi notare.

Ciononostante, nel tentativo di approfondire la narrazione, il film si arena, non presentando una vera evoluzione drammaturgica: i personaggi restano bloccati, la rapina — momento chiave — non acquisisce mai un peso emotivo reale, e il finale scivola via senza offrire un punto di vista chiaro o una svolta, come se si volesse evitare una presa di posizione.

A mancare è un atto di coraggio, sia da parte del protagonista che della regista: il coraggio di osare, di andare oltre la malinconia controllata, rischiando una caduta o un riscatto, anche ambiguo. The Mastermind resta sospeso, con una riflessione sulla crisi maschile e sul disfacimento familiare solo accennata, mai pienamente incarnata.

In definitiva, The Mastermind si guarda volentieri, ma non colpisce davvero: è come una rapina senza bottino, ci sono un’idea interessante e una buona atmosfera, ma non quel momento sorprendente che lo avrebbe trasformato in qualcosa in più.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

6


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