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The Running Man, la recensione: la corsa tra spettacolo e sopravvivenza secondo Edgar Wright

The Running Man di Edgar Wright: azione, satira e riflessione sullo spettacolo e la società, tra adrenalina e critica sociale.

A quarant’anni dal cult con Arnold Schwarzenegger, The Running Man torna sul grande schermo il 6 novembre 2025, distribuito da Eagle Pictures, nella nuova versione diretta da Edgar Wright. Il regista di successi come Baby Driver, Scott Pilgrim vs. The World e Last Night in Soho, tra i nomi più riconoscibili del cinema contemporaneo, si cimenta per la prima volta nell’adattamento di un romanzo di Stephen King, pubblicato nel 1982 sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, costruendo un film ad alto impatto visivo.

La storia segue Ben Richards (Glen Powell), un uomo comune che, per ottenere i soldi necessari a curare la figlia di due anni, si vede costretto a partecipare al reality estremo The Running Man. I concorrenti, chiamati “Runner”, devono sopravvivere per 30 giorni braccati da killer professionisti, i “Cacciatori”, mentre il pubblico segue ogni loro mossa in diretta TV, applaudendo, giudicando e condannando come se fosse una partita ai Mondiali.

Guidato dall’amore per la famiglia e dalla rabbia, Ben decide di rompere le regole: si muove senza sosta, combatte, sopporta fino a diventare il simbolo di rivolta. Tuttavia, con l’aumentare della sua fama, il rischio cresce proporzionalmente, e Ben si troverà a dover fronteggiare non solo chi lo bracca, ma un’intera nazione pronta a goderne la caduta.

Lo specchio del presente: lo spettacolo prima del messaggio

Cosa succede quando la sofferenza diventa intrattenimento e la verità si trasforma in uno show in diretta? Nella nuova versione di The Running Man, Edgar Wright racconta la fuga di Ben Richards come un modo per riflettere su un’umanità intrappolata in un sistema che spettacolarizza il dolore, dove ogni gesto è osservato, commentato e divorato in tempo reale, e le immagini scorrono senza sosta, travolgendoci e lasciandoci poco spazio per pensare. Azione e adrenalina diventano così strumenti per mostrare quanto sia facile manipolare le masse e trasformare la realtà in show.

L’arena globale in cui i concorrenti combattono per sopravvivere altro non è, infatti, che lo specchio della nostra società, abituata a guardare tutto come se fosse un gioco o un film. Non sappiamo più distinguere chi è il vero nemico, mentre chi controlla l’informazione osserva da lontano, gestendo emozioni e opinioni con freddezza. È un meccanismo che ci riguarda da vicino: basta pensare ai social, ai video virali di incidenti o violenze, alle sfide pericolose e ai programmi che si nutrono di scandali e indignazione. Tutto viene trasformato in contenuto, in emozione da consumare e monetizzare.

Oggi, immersa in un flusso continuo di immagini e informazioni, la maggior parte delle persone ha perso il contatto con la realtà e con sé stessa. I social network hanno creato un mondo dove tutto è visibile ma poco è davvero compreso, e i più giovani, cresciuti nell’iperconnessione, faticano a distinguere l’autentico dal costruito. Un’alienazione alimentata dalla ricerca costante di attenzione e approvazione, che spinge sempre più spesso a gesti estremi e all’inseguimento di una fama illusoria, segno di una società che sta perdendo – o ha già perso – il controllo del proprio rapporto con il presente.

A tal proposito, il personaggio di Dan Killian, interpretato da Josh Brolin, simboleggia il volto moderno di questo potere mediatico: conosce i desideri del pubblico e li usa a proprio vantaggio, trasformando il dolore in spettacolo, la tragedia in successo e l’eroe in un prodotto da vendere, mentre l’opinione pubblica, guidata dalle sensazioni del momento, cambia idea in un attimo. Killian incarna quindi il lato oscuro dei media, poiché controlla le masse non con la forza, ma con la suggestione.

Al contrario, Ben Richards è l’immagine della resistenza e dell’autenticità: è l’uomo che rifiuta di piegarsi e che cerca di difendere la verità in un mondo dove tutto è manipolato. La sua lotta contro Killian — il ribelle contro il burattinaio — diventa così una metafora potente: la battaglia tra libertà e controllo, tra umanità e spettacolo.

Accanto a loro, Colman Domingo è il presentatore dello show, emblema di come, nella nostra società ossessionata dalla visibilità, ogni sofferenza diventi merce per attirare il pubblico, la compassione lasci spazio alla curiosità e guardare diventi più importante che capire.

Società, controllo e responsabilità: quando la corsa non basta

The Running Man conferma Edgar Wright come regista capace di unire ritmo incalzante e cura visiva a una narrazione moderna, in grado di coinvolgere lo spettatore sia emotivamente sia sensorialmente. Pur restando un prodotto di intrattenimento, il film offre spunti interessanti su dinamiche di potere, percezione pubblica e fragilità umana, mostrando come la nostra attenzione sia sempre più influenzata dai media.

Il film interroga sulla capacità di resistenza individuale in un contesto che premia il sensazionalismo: fino a che punto siamo spettatori passivi della realtà? Quanto la visibilità e la popolarità influenzano la nostra percezione del giusto e dello sbagliato?

In conclusione The Running Man si conferma essere un solido intrattenimento con l’azione e la spettacolarità che dominano sulla profondità della critica sociale, e il risultato è una visione coinvolgente, anche se solo in parte incisiva sul piano concettuale. Un film che diverte facendo riflettere per suggestione ritraendo il nostro tempo: spettacolare, consapevole, ma ancora prigioniero del meccanismo che intende denunciare.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

7


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