The Smashing Machine, diretto da Benny Safdie e con Dwayne Johnson, racconta la forza, la fragilità e il prezzo dell’invincibilità.
Negli anni ’90, Mark Kerr era molto più di un campione: era un colosso, una leggenda vivente. Soprannominato The Smashing Machine per la potenza devastante con cui dominava i primi tornei UFC e i circuiti internazionali di MMA, Kerr sembrava invincibile, costruito per vincere. Ma dietro quella forza sovrumana si nascondeva una verità più oscura: un uomo tormentato, logorato dalla pressione, dalla dipendenza e da un dolore che nessuna vittoria riusciva ad anestetizzare.
Una parabola brutale e umanissima che Benny Safdie, al suo debutto alla regia in solitaria dopo aver rivoluzionato il cinema indipendente americano insieme al fratello Josh (Good Time, Uncut Gems), racconta con The Smashing Machine. Un biopic atipico e sincero, che rinuncia ai cliché celebrativi per inoltrarsi nelle zone d’ombra dell’animo di questo campione.
Ex campione NCAA di lotta libera, Mark Kerr dominò la scena delle MMA negli anni ’90, vincendo tornei UFC, World Vale Tudo e Pride in Giappone, oltre a conquistare tre titoli ADCC nel submission wrestling, affermandosi come uno degli atleti più completi e temuti della sua epoca.
Uno sguardo visivo autentico
Fedele al suo stile inconfondibile, reale e attento alla psicologia dei personaggi, Safdie supera i confini del classico film sportivo, costruendo un ritratto intimo di Mark Kerr: non più simbolo di forza assoluta, ma uomo vulnerabile, schiacciato dal mito che lui stesso ha contribuito a creare. Il racconto di un’ascesa folgorante e di una caduta fragorosa, ma soprattutto un’esplorazione straziante del fragile equilibrio tra forza fisica e abisso emotivo.
A interpretare Kerr è un sorprendente Dwayne Johnson, che si allontana dai suoi ruoli abituali per offrire forse l’interpretazione più intensa della sua carriera, e, considerando il passato di Johnson come lottatore e campione di wrestling, il personaggio è cucito su misura per lui. Johnson abbandona quindi la corazza del superuomo hollywoodiano per indossare con una vulnerabilità sorprendente Mark Kerr: leggenda delle MMA e uomo spezzato, prigioniero del proprio mito.
Il suo Kerr non è l’eroe monolitico a cui il cinema d’azione ci ha abituati, ma un colosso in frantumi, consumato da dolori fisici insostenibili, dalla dipendenza dagli antidolorifici, dalla pressione di un ambiente ipermaschile e ipercompetitivo, e da una depressione che si insinua lentamente tra le pieghe del successo, con il corpo che si trasforma in una trappola. Una solitudine nascosta dietro la gloria che Safdie, autore anche della sceneggiatura, scava con rispetto, facendo emergere un uomo celebrato per la sua resistenza ma in realtà in lotta contro se stesso.
Accanto a lui, Emily Blunt è delicata ma potente nel ruolo di Dawn Staples, compagna di vita e spettatrice inerme del naufragio di Kerr. Il suo sguardo aggiunge uno strato emotivo fondamentale, trasmettendo il dolore di un amore che non può guarire e il dramma — spesso invisibile — di chi resta accanto a un gigante che crolla.
Un ritratto intimo e vulnerabile
The Smashing Machine affronta con lucidità tematiche quali il culto della forza, la fragilità maschile, e la dipendenza come rifugio e condanna, con Kerr simbolo di un uomo indistruttibile costretto a pagare con la salute mentale e fisica il prezzo di un’identità costruita sulla prestazione, sulla violenza e sull’apparenza.
Safdie riflette con acume sul corpo come merce: nel mondo delle MMA il fisico è tempio, strumento e spettacolo, ma ogni colpo subito, lesione taciuta e iniezione di analgesici si trasformano in atti di silenzioso annientamento. Il ring, luogo della gloria, diventa così una gabbia esistenziale.
La solitudine del campione è un nodo centrale del film. Esaltato dalle folle e idolatrato dai media, ma spesso abbandonato nel privato, Kerr è anche l’emblema di un sistema sportivo che crea icone a uso e consumo del pubblico, ignorando le macerie interiori dietro i riflettori, sottolineando, senza retorica, la brutalità di questo meccanismo, e la mancanza di supporti di cura, ascolto e prevenzione.
Realizzato su pellicola 16 mm dal direttore della fotografia Maceo Bishop, già collaboratore di Benny Safdie in The Curse, in The Smashing Machine lo stile adottato, vicino al documentario, osserva i personaggi da lontano, come se lo spettatore fosse tra il pubblico o dietro le quinte. La telecamera si muove come se fosse seduta in terza fila: non troppo vicina, ma abbastanza presente per far sentire immersi nella scena. Le inquadrature strette diventano esplosioni della guerra interiore che consuma Kerr. La fotografia cattura efficacemente il tono degli anni ’90, mentre la colonna sonora accompagna il ritmo della narrazione.
Il prezzo del successo
The Smashing Machine è uno sguardo intenso e umano del labile equilibrio tra forza fisica, mentale ed emotiva. Attraverso la storia di un campione che lotta non solo contro gli avversari, ma soprattutto contro i propri demoni interiori, il film mette in luce le fragilità nascoste dietro la maschera dell’acclamata immagine pubblica, analizzandone il tormento interiore, le paure e le insicurezze.
Sebbene la narrazione presenti alcuni limiti, talvolta risultando poco approfondita, The Smashing Machine riesce comunque a coinvolgere grazie alle interpretazioni solide e a una regia capace di coniugare realismo e profondità emotiva. Il risultato è un’opera che si conferma così un invito a riflettere sulle difficoltà personali e sui compromessi che accompagnano il successo in un ambiente tanto esigente quanto spietato.
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Emanuela Giuliani
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