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The Ugly Stepsister, la recensione: l’orrore dietro la fiaba

The Ugly Stepsister: fiaba distorta tra horror e critica sociale, tra disgusto e empatia, un debutto coraggioso e visivamente potente.

Dimenticate il luccichio del ballo, la scarpetta di cristallo e il lieto fine: The Ugly Stepsister, esordio della regista norvegese Emilie Blichfeldt, trascina la fiaba di Cenerentola nel fango, nel sangue e nella carne viva. Presentato come un racconto distorto e viscerale, il film, dopo aver scosso il Nord Europa, promette di far tremare anche le sale italiane dal 30 ottobre, in tempo per un Halloween da favola e da incubo.

La Norvegia, come gran parte dei Paesi scandinavi, possiede una lunga tradizione di narrazioni che intrecciano mito, folklore e critica sociale, con un’estetica fredda e malinconica che riflette paure collettive e tensioni interiori. In questo contesto, la Blichfeldt non si limita a reinterpretare Cenerentola, ma conduce lo spettatore in un territorio dove l’orrore fisico e psicologico diventa metafora delle costrizioni sociali, delle aspettative familiari e dell’ossessione per l’immagine.

Con un linguaggio visivo crudo e diretto, la regista ribalta, nel modo più estremo, disturbante e talvolta respingente, uno dei miti più rassicuranti del canone fiabesco, costringendoci a guardare negli occhi il lato oscuro della bellezza, della famiglia e del desiderio di essere amati.

Quando la bellezza diventa mostro

Al centro di The Ugly Stepsister troviamo Elvira, la sorellastra “brutta” di Cenerentola, interpretata da una magnetica Lea Myren, qui trasformata in una figura tragica, divorata dal bisogno di essere accettata e che intravede nel ballo annunciato nel regno — durante il quale il principe sceglierà la sua futura sposa — una possibilità di riscatto. O almeno, così crede.

La madre, una matrona priva di etica e di morale, che sembra uscita da un incubo gotico, la spinge a superare ogni limite pur di raggiungere un ideale assurdo di perfezione, sottoponendola a una serie di interventi a dir poco folli. Così, il concetto “se la scarpetta non calza, basta tagliarsi il piede” diventa l’emblema del desiderio di conformarsi a standard inarrivabili, fino al punto di non ritorno dell’autodistruzione. Il body horror non è qui un puro spettacolo di sangue, ma il riflesso della ferocia psicologica e sociale.

Le mutilazioni e le metamorfosi di Elvira diventano, di conseguenza, potenti metafore delle pressioni a cui le donne sono sottoposte nella società contemporanea: dalla chirurgia estetica ai filtri dei social, dal culto del corpo alla messa in scena di sé. La deformazione fisica diventa così lo specchio dell’alterazione dell’anima e di un’ossessione che logora dall’interno, mettendo in discussione i concetti stessi di bellezza e valore personale, e rivelando quanto la società possa influenzare l’individuo con aspettative irrealistiche, fino a generare un senso di inadeguatezza che non risparmia nessuno.

Come nelle opere di grande impatto visivo, la storia di Blichfeldt — che potrebbe non essere compresa proprio a causa del suo estremismo, a tratti apparentemente gratuito — rovescia per l’appunto le certezze dello sguardo del pubblico, ed ecco quindi che in The Ugly Stepsister non è più Cenerentola a incarnare la vittima innocente, ma la sorellastra “malvagia”, il cui dolore e le cui fragilità vengono finalmente raccontati.

Sofferenze che, per quanto assurde, permettono di empatizzare con la protagonista grazie alle tematiche affrontate, che spaziano dall’ansia da prestazione sociale alla discriminazione estetica, senza mai perdere il filo della fiaba originaria. Il film mette in luce, di fatto, la difficoltà di essere accolti e riconosciuti quando a contare è l’apparenza, mostrando come il condizionamento esterno possa distorcere corpo e psiche.

Una discesa nell’abisso, accompagnata da un montaggio frammentato e a tratti febbrile, da un ritmo narrativo che alterna momenti di quiete a improvvise esplosioni di violenza e da un uso del suono che amplifica il senso di disagio e la perdita dell’identità. E mentre la fotografia di Anders Lunde, fredda e tagliente, evoca un universo sospeso tra sogno e incubo, la scenografia, passando dal lusso dei castelli alla putrefazione dei corpi mutilati, sottolinea come dietro la bellezza si nasconda un vuoto spaventoso, generato dalla violenza silenziosa del giudizio e delle attese.

La protagonista, quindi, non è semplicemente la “cattiva” della storia, ma una giovane donna tormentata dall’ansia di non essere abbastanza e dalla paura di non meritare amore. Il suo dramma, amplificato dalla crudeltà e dal gore, è profondamente umano e mostra come la ricerca di approvazione conduca a una perdita totale di sé e alla necessità di riscoprire un equilibrio tra desideri, identità e libertà personale.

Tra mostruosità e specchio sociale

Con The Ugly Stepsister, Emilie Blichfeldt senza alcun dubbio firma un debutto coraggioso e provocatorio, capace di usare l’horror non come strumento di paura, ma come lente critica sulla società dell’immagine e dell’autoannientamento. È una fiaba che lacera, un racconto di emancipazione fallita che lascia lo spettatore diviso tra disgusto e pietà.

In un panorama dominato da remake innocui e revisionismi patinati, il film osa sporcarsi le mani con un’esperienza viscerale e inquietantemente attuale, che richiede una certa predisposizione a confrontarsi con immagini forti e una narrazione non lineare la cui crudezza trova un parallelo interessante in opere come The Substance di Coralie Fargeat, dove il corpo diventa terreno di sperimentazione radicale e il confine tra desiderio, autodistruzione e trasformazione si fa sempre più sottile.

Perché, a volte, la vera mostruosità non si cela nei volti sfigurati, ma nello sguardo giudicante, nelle regole imposte e nella crescente, incessante paura di non essere mai abbastanza.

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Emanuela Giuliani

Il Voto della Redazione:

7


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