Wake Up Dead Man: Knives Out, il terzo capitolo della saga di Rian Johnson, è più cupo, intelligente e coinvolgente che mai.
C’è un silenzio, in Wake Up Dead Man: Knives Out, che pesa più di qualsiasi parola: una tensione sospesa da cui Rian Johnson riparte per il terzo capitolo della sua saga investigativa, spingendo Benoit Blanc e lo spettatore in un territorio più inquietante del previsto e dimostrando di avere ancora qualcosa da dire attraverso il suo detective simbolo, interpretato da un Daniel Craig più misurato.
È il capitolo più cupo e rischioso della trilogia con il mistero che smette di essere solo un gioco di logica e diventa una discesa nell’oscurità morale dei personaggi, con toni più gravi, un ritmo riflessivo e un’ambientazione fortemente simbolica, anche se in alcuni momenti la tensione rallenta più del necessario.
La storia si svolge in una piccola comunità religiosa, dove l’arrivo del giovane prete Jud Duplenticy, chiamato ad affiancare il carismatico ed enigmatico Monsignor Jefferson Wicks, incrina subito la quiete, rivelando i conflitti nascosti dietro le buone maniere, e quando l’improvviso omicidio di quest’ultimo sconvolge la cittadina, ogni certezza crolla. Senza un colpevole evidente, la capo della polizia Geraldine Scott chiede aiuto a Benoit Blanc, il cui ingresso cambia il punto di vista e dà il via a un’indagine complessa e stratificata, che rifiuta soluzioni facili e mette lo spettatore a confronto con ciò che crede di sapere.
Un gioco di indizi per lo spettatore
Rian Johnson, con Wake Up Dead Man: Knives Out, costruisce un grande rompicapo narrativo in cui nulla è davvero secondario, che coinvolge, provoca, crea dubbi e riflessioni, in cui gli spazi non sono semplici ambientazioni ma mappe da decifrare; i movimenti dei personaggi rivelano più dei dialoghi; gli oggetti in scena non sono mai decorativi ma potenziali chiavi di lettura del mistero; e i silenzi lunghi parlano quanto le parole.
Una visione che spiega poco, non sottolinea gli indizi in modo evidente, fidandosi dell’attenzione di chi guarda, chiamato a osservare, ricordare e collegare dettagli che all’inizio sembrano insignificanti, invitando a entrare dentro la storia, e a muoversi tra i personaggi interrogandosi continuamente su ciò che si vede, mettendo in dubbio le proprie ipotesi e accettando di sbagliare. Un mistero che porta a confrontarsi con ogni nuova rivelazione, costringendo a rivedere ciò che si credeva di aver capito, anche se alcune di queste arrivano con un ritmo meno incalzante di quanto ci si potrebbe aspettare, intrecciandosi in modo naturale con il contrasto tra sacro e profano.
La chiesa, luogo che dovrebbe offrire certezze, diventa di fatto ambiguo e pieno di zone d’ombra, con le immagini sacre che convivono con gesti e comportamenti profondamente umani, spesso meschini, spingendo a guardare oltre l’apparenza non fidandosi di ciò che sembra “puro” o ordinato, parlando così del nostro rapporto con ciò che non comprendiamo e nei confronti del quale cerchiamo risposte rapide e rassicuranti, facendoci rallentare, convivere con il dubbio e osservare meglio. Incertezza in cui risiede la forza del film.
Un cast corale e incisivo
Daniel Craig conferma ancora una volta la solidità e il fascino del suo Benoit Blanc. In questo capitolo il personaggio parla meno, è meno incline all’eccentricità immediata e più concentrato sull’ascolto. Il suo sguardo è uno strumento d’indagine tanto quanto la logica, silenzioso, riflessivo e affascinante, ed è particolarmente significativo che il film riesca a reggersi perfettamente anche nella lunga parte iniziale senza di lui, dimostrando la sicurezza di Johnson nella costruzione del racconto. Il mistero è già vivo prima dell’arrivo del detective, che entra in scena senza imporre la propria presenza, inserendosi in un equilibrio già fragile e amplificandone le crepe.
Josh Brolin e Josh O’Connor danno vita a due personaggi profondamente diversi ma legati da un rapporto complesso, fatto di autorità, dipendenza e contrasti interiori, vero cuore emotivo del film, privo di qualsiasi caricatura. Allo stesso modo, Glenn Close, Kerry Washington, Jeremy Renner e Andrew Scott sono intensi e credibili, suggerendo più di quanto mostrino apertamente. Nessuno è davvero marginale e ognuno contribuisce al mosaico del mistero, anche se in alcuni momenti la concentrazione richiesta può risultare dispersiva a causa del ritmo lento e della mancanza di colpi di scena eclatanti.
Una narrazione, quindi, dall’ironia più sottile rispetto ai capitoli precedenti, che gioca con le regole del giallo quando necessario, in un equilibrio riuscito tra tradizione e novità, che le richiama e le rinnova con intelligenza, coerenza e uno stile visivo chiaro.
L’arte del sospetto
Dopo l’accoglienza al Toronto e al London Film Festival, Wake Up Dead Man è arrivato su Netflix, confermando la solidità di una saga capace di rinnovarsi senza perdere la propria identità. Un giallo astuto e intrigante, attento ai dettagli e in grado di coinvolgere lo spettatore senza mai sottovalutarlo. Rian Johnson usa il mistero come strumento per parlare di fede, verità e del profondo bisogno umano di certezze, mettendo in scena personaggi fragili, contraddittori e veritieri.
Il risultato è un film che intrattiene e lascia spazio al dubbio e alla riflessione. Come una chiesa spoglia di simboli rassicuranti, Wake Up Dead Man non promette risposte né consolazioni, eppure non fa perdere la fiducia nel cinema investigativo.
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Emanuela Giuliani
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